domenica 8 gennaio 2017

29 Divina Commedia - Inferno: canto quinto (di Dante Alighieri)

LA DIVINA COMMEDIA – INFERNO: CANTO QUINTO (di Dante Alighieri)


I LUSSURIOSI - PAOLO E FRANCESCA

Ripresi i sensi, Dante si trova al di là dell’Acheronte, nel primo cerchio dell’Inferno, cioè nel Limbo, dove si trovano coloro che morirono senza aver conosciuto la grazia di Dio, o perché vissero prima del cristianesimo, o perché morirono prima di essere battezzati; sono anime esenti da colpe specifiche e non sono prive di meriti (come eroi, filosofi, scienziati e poeti) e la loro penna, tutta spirituale, consiste in un vano desiderio della vista di Dio.
Quindi Dante e Virgilio scendono nel secondo cerchio infernale, sulla cui soglia sta Minosse, il leggendario re di Creta, che ha la funzione di decretare quale sia la pena riservata ad ogni peccatore; poi i due poeti conoscono le anime del secondo cerchio. Sono i lussuriosi, coloro che in vita si abbandonarono alla passione amorosa. Tra di essi, stanno Paolo e Francesca, i due amanti che si amarono di un amore che li portò alla morte.

Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia,
e tanto più dolor, che punge a guaio.

Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe nell’entrata;
giudica e manda secondo ch’avvinghia.

Dico che quando l’anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor delle peccata

vede qual luogo d’inferno è da essa;
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giù sia messa.

Sempre dinanzi a lui ne stanno molte:
vanno a vicenda ciascuna al giudizio,
dicono e odono, e poi son giù volte.

«O tu che vieni al doloroso ospizio»,
disse Minòs a me quando mi vide,
lasciando l’atto di cotanto offizio,

«guarda com’entri e di cui tu ti fide:
non t’inganni l’ampiezza dell’entrare!»
E ’l duca mio a lui: «Perché pur gride?

Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare».

Ora incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
là dove molto pianto mi percuote.

Io venni in loco d’ogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti è combattuto.

La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.

Quando giungon davanti alla ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtù divina.

Intesi ch’a così fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento.

E come li stornei ne portan l’ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
così quel fiato li spiriti mali

di qua, di là, di giù, di su li mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena.

E come i gru van cantando lor lai,
faccendo in aere di sé lunga riga,
così vidi venir, traendo guai,

ombre portate dalla detta briga;
per ch’i’ dissi: «Maestro, chi son quelle
genti che l’aura nera sì gastiga?»

«La prima di color di cui novelle
tu vuo’ saper», mi disse quelli allotta,
«fu imperadrice di molte favelle.

A vizio di lussuria fu sì rotta,
che libito fe’ licito in sua legge,
per tòrre il biasmo in che era condotta.

Ell’è Semiramìs, di cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa:
tenne la terra che ’l Soldan corregge.

L’altra è colei che s’ancise amorosa,
e ruppe fede al cener di Sicheo;
poi è Cleopatràs lussuriosa.

Elena vedi, per cui tanto reo
tempo si volse, e vedi il grande Achille,
che con amore al fine combattèo.

Vedi Parìs, Tristano»; e più di mille
ombre mostrommi e nominommi a dito,
ch’amor di nostra vita dipartille.

Poscia ch’io ebbi il mio dottore udito
nomar le donne antiche e’ cavalieri,
pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.

I’ cominciai: «Poeta, volentieri
parlerei a quei due che ’nsieme vanno,
e paion sì al vento esser leggieri».

Ed elli a me: «Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno».

Sì tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: «O anime affannate,
venite a noi parlar, s’altri nol niega!»

Quali colombe, dal disio chiamate,
con l’ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l’aere, dal voler portate;

cotali uscir de la schiera ov’è Dido,
a noi venendo per l’aere maligno,
sì forte fu l’affettuoso grido.

«O animal grazioso e benigno
che visitando vai per l’aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,

se fosse amico il re dell’universo,
noi pregheremmo lui della tua pace,
poi c’hai pietà del nostro mal perverso.

Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che ’l vento, come fa, si tace.

Siede la terra dove nata fui
sulla marina dove ’l Po discende
per aver pace co’ seguaci sui.

Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui della bella persona
che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.

Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.

Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense».
Queste parole da lor ci fur porte.

Quand’io intesi quell’anime offense,
china’ il viso e tanto il tenni basso,
fin che ’l poeta mi disse: «Che pense?»

Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!»

Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
a lacrimar mi fanno tristo e pio.

Ma dimmi: al tempo de’ dolci sospiri,
a che e come concedette Amore
che conosceste i dubbiosi disiri?».

E quella a me: «Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
nella miseria; e ciò sa ’l tuo dottore.

Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.

Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.

Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.

Quando leggemmo il disiato riso
esser baciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,

la bocca mi baciò tutto tremante.
Galeotto fu il libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante».

Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangea; sì che di pietade
io venni men così com’io morisse;

e caddi come corpo morto cade.


(testo secondo l'edizione di Natalino Sapegno, 1968)

PARAFRASI:

Così discesi dal primo cerchio giù nel secondo, che cinge minor spazio [essendo più piccolo], e tanto più dolore, che stimola ai lamenti.
Vi sta Minosse [il mitologico re di Creta, che, non avendo sacrificato un toro a Poseidone, ebbe come punizione il congiungimento della moglie con il toro stesso, da cui nacque il Minotauro], orribilmente e ringhia: esamina le colpe nell’entrata; giudica e manda [i dannati] secondo quanto si avvolge.
Dico che quando un’anima mal nata gli viene dinanzi, essa si confessa tutta; ed egli, gran conoscitore dei peccati,
vede quale sia il luogo dell’inferno è adatto ad essa; si avvolge con la coda tante volte quanti sono i gradoni infernali che vuole venga fatta scendere.
Davanti a lui ce ne sono sempre molte: ciascuna di esse va ad una ad una al giudizio [di Minosse]; esse dicono [i loro peccati] e odono [la pena a cui sono condannate] e vengono poi giù precipitate.
«O tu che vieni a questo albergo di dolore», disse a me Minosse quando mi vide, interrompendo l’esercizio del suo ufficio così importante,
«fa’ attenzione a come entri e di chi ti fidi: non t’inganni il fatto che l’entrata sia così ampia [e quindi facile]!». E il mio duca [= la mia guida] a lui: «Perché continui a gridare?
Non impedire la sua andata fatale [cioè voluta dal fato, da Dio]: si vuole così là dove si può ciò che si vuole e non domandare nient’altro».
Ora le voci dolenti cominciano a farmisi sentire; ora sono giunto là dove molto pianto mi percuote [= colpisce il mio udito].
Io giunsi in un luogo muto di ogni luce, che mugghia [= risuona] come fa un mare in tempesta, se è combattuto da venti opposti.
La bufera infernale, che non si arresta mai, sbatte gli spiriti con la sua forza travolgente: li molesta voltandoli e percuotendoli.
Quando giungono davanti alla rovina [secondo alcuni è il luogo franoso che esiste tra un cerchio e l’altro, provocato dal terremoto che si avverrò al momento della morte di Gesù, e attraverso cui Dante passa da un cerchio all’altro], qui le grida, il compianto, il lamento [si intensificano]; qui bestemmiano la virtù divina.
Compresi che a un tale tormento sono condannati i peccatori carnali, i quali sottomettono la ragione al loro appetito [alla loro passione. Cioè ubbidiscono alla loro passione, piuttosto che alla ragione].
E come le ali portano gli stornelli nella stagione fredda in una larga e piena schiera, così quel vento gli spiriti malvagi
li mena di qua, di là, di giù, di su; nessuna speranza li conforta mai, non solo di una pausa, ma nemmeno di una pena minore.
E come le gru vanno cantando i loro versi lamentosi, mentre in aria sono disposte in una lunga riga, così vidi venire, lanciando gemiti,
ombre portate dalla suddetta bufera: per cui io dissi: «Maestro, chi sono quelle genti che l’aria buia castiga in tal modo?»
«La prima di coloro di cui vuoi avere notizie» mi disse egli allora, «fu imperatrice di [molti popoli dalle] molte lingue.
Fu così rotta [= abituata] al vizio della lussuria, che rese lecito per legge fare ciò che ognuno volesse, per cancellare il biasimo in cui era incorsa.
Ella è Semiramide [leggendaria regina degli Assiri, che tutti gli scrittori medievali presentano come l’esempio tipico di lussuria sfrenata, in quanto ebbe un rapporto incestuoso con il figlio], della quale si legge che succedette a Nino e fu sua sposa [l’ordine cronologico vorrebbe che prima ella fu sposa di Nino e poi gli succedette sul trono, quando egli morì]: governò la terra che ora regge il Soldano [cioè il sultano d’Egitto; che in realtà non governava sulle stesse terre di Semiramide].
L’altra è colei che s’uccise essendo innamorata e venendo meno alla fedeltà giurata sulle ceneri di Sicheo [si tratta di Didone, che non mantenne la fedeltà giurata al marito Sicheo, quando egli morì, innamorandosi di Enea quando giunse a Cartagine; abbandonata da Enea, ella poi si suicidò]; poi c’è Cleopatra lussuriosa [in quanto amante di Giulio Cesare e poi di Marco Antonio]
Vedi Elena, a causa della quale scorse tanto tempo malvagio [Elena di Troia fu appunto la causa della guerra tra Greci e Troiani], e vedi il grande Achille, che infine dovette combattere contro l’amore [rimanendone sconfitto, secondo i racconti medievali; Achille, infatti, si era innamorato della figlia di Priamo e a causa di questo legame morì in un agguato a tradimento].
Vedi Paride [il rapitore di Elena], Tristano [che si innamorò di Isotta, moglie di suo zio Marco]»; e mi mostrò più di mille ombre e le nominò ad una ad una indicandole col dito, che l’amore dipartì dalla vita [cioè condusse a morte].
Dopo che ebbi udito il mio dottore nominare le antiche donne e i cavalieri, mi giunse [nell’animo] la pietà [qui nel senso di gran turbamento] e fui quasi smarrito.
Io cominciai: «Poeta, volentieri parlerei a quei due che vanno insieme e sembrano essere così leggeri al vento».
Ed egli a me: «Vedrai quando saranno più vicini a noi; tu allora pregali per quell’amore che li conduce ed essi verranno».
Così non appena il vento li piega verso di noi, mossi la voce: «O anime tormentate, venite a parlarci, se Dio non lo nega!»
Come colombe, chiamate dal desiderio, vengono per l’aria con le ali alzate e ferme al dolce nido portate dal volere [il desiderio e il volere che muovono le colombe sono l’istinto amoroso che le anima e le conduce ai pulcini nel nido];
così uscirono dalla schiera dove c’è Didone, venendo da noi per l’aria maligna [dell’Inferno], talmente forte fu il mio grido affettuoso.
«O essere animato grazioso e benigno che vai visitando per l’aria tenebrosa noi che tingemmo il mondo col sangue [il nostro o quello che fu versato per causa nostra; l’espressione è riferita a tutti i lussuriosi],
se il re dell’universo fosse pietoso verso di noi, noi lo pregheremmo per la tua pace, poiché hai pietà del nostro perverso male.
Di ciò che vi piace udire e parlare, noi udiremo e parleremo a voi, finché il vento, come sta ora facendo, soffia con minor impeto.
La terra dove sono nata [Ravenna] si stende sul litorale marino dove il Po discende per trovar pace con i suoi seguaci [cioè i suoi affluenti. Chi sta parlando è Francesca, figlia di Guido da Polenta, signore di Ravenna. Poco dopo il 1275 andò in sposa a Gianciotto Malatesta, signore di Rimini, uomo rustico, zoppo e deforme: si trattava di un matrimonio combinato tra le due famiglie, per ristabilire la pace dopo una lunga serie di contese. Anni dopo Francesca si innamorò di Paolo, fratello di Gianciotto, che scoprì i due amanti e li trucidò entrambi].
Amore, che veloce si apprende [= si attacca] al cuor gentile, fece innamorare costui della mia bellezza fisica che mi è stata tolta; e il modo ancora mi offende [questo verso può essere inteso in due modi diversi: il modo che offende Francesca può essere quello in cui venne uccisa, alludendo quindi a una particolare efferatezza del gesto di Gianciotto; oppure può essere quello che portò Paolo a innamorarsi di lei e che fu un modo talmente forte, da vincerla ancora adesso che è all’inferno].
Amore, che non tollera che chi è amato non riami, mi innamorò della bellezza di costui in maniera così forte, che, come vedi, ancor non mia abbandona.
Amore ci condusse ad una medesima morte: Caina attende chi ci uccise [Caina è una delle quattro zone dell’ultimo cerchio infernale, dove sono puniti i traditori dei parenti]». Queste parole ci furono dette da loro [in realtà sta parlando solo Francesca, la quale però si esprime anche in nome di Paolo].
Quando io intesi quelle anime travagliate, chinai gli occhi e li tenni tanto bassi, finché il poeta mi disse: «Che ne pensi?»
Quando risposi, cominciai: «Ohimè, quanti dolci pensieri, quanto desiderio condusse costoro al passo doloroso [della morte, secondo alcuni, della colpa amorosa, secondo altri]!»
Poi mi rivolsi loro e parlai io e cominciai: «Francesca, il tuo martirio mi rende tristo e pio fino alle lacrime.
Ma dimmi: al tempo dei dolci sospiri, cosa fu e in che modo che Amore vi concesse di conoscere i desideri pieni di dubbio?»
E quella a me: «Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria; e il tuo dottore [Virgilio] lo sa.
Ma se hai un così grande desiderio di conoscere la prima radice del nostro amore, te lo dirò come colui che piange e dice.
Noi un giorno leggevamo per diletto la storia di Lancillotto e di come amor lo strinse: eravamo soli e senza alcun sospetto [cioè senza alcun presentimento di quel che sarebbe successo]
Quella lettura ci sospinse più volte a scambiarci gli sguardi e ci scolorì il viso [ci fece impallidire]; ma un punto solo fu quello che ci vinse.
Quando leggemmo che il sorriso desiderato venne baciato da un tale amante [cioè quando Lancillotto baciò Ginevra, moglie di re Artù], costui, che non sarà mai separato da me,
tutto tremante mi baciò la bocca.  Galeotto fu il libro e chi lo scrisse: quel giorno non leggemmo più oltre» [Nel romanzo di Lancillotto del Lago, Galeotto è il personaggio che spinge Lancillotto e Ginevra a rivelarsi il reciproco amore; il nome proprio è divenuto un nome comune ad indicare chi o che cosa spinge a rivelare il proprio amore a qualcuno; così Francesca definisce galeotto sia il libro, sia chi lo scrisse, poiché è attraverso quel libro che ella cedette all’amore di Paolo]
Mentre uno spirito diceva queste parole, l’altro piangeva, cosicché per la pietà io venni meno come se io morissi;
e caddi come cade un corpo morto.

William Dyce, Francesca da Rimini (1837)

Ary Scheffer, Dante e Virgilio incontrano Paolo e Francesca (1835 circa)

All’episodio di Paolo e Francesca si è ispirato anche il compositore russo Pëtr Il'ič Čajkovskij (1840-1893) che nel 1876 compose una fantasia sinfonica, intitolata “Francesca da Rimini”.
La composizione è articolata in tre parti:
1- la bufera infernale trascina “di qua, di là, di giù, di su” gli spiriti dei lussuriosi
2- Francesca canta il suo amore
3- l’inferno richiama i due amanti alla realtà; per gli infelici amanti, ricomincia la pena eterna.

Puoi ascoltarla, cliccando qui sotto:




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