domenica 15 gennaio 2017

39 Se questo è un uomo - capitolo 6: IL LAVORO (di Primo Levi)



Nel sesto capitolo del suo romanzo Primo Levi ha descritto una mattina di lavoro nel campo di concentramento: la fatica, gli stratagemmi con cui tentare di sottrarsi al lavoro o di renderlo meno pesante, l’attesa della zuppa a mezzogiorno, con il breve ma intendo momento di riposo che ne consegue.

IL LAVORO

Prima di Resnyk, con me dormiva un polacco di cui tutti ignoravano il nome; era mite e silenzioso, aveva due vecchie piaghe alle tibie e di notte emanava un odore squallido di malattia; era anche debole di vescica, e perciò si svegliava e mi svegliava otto o dieci volte per notte.
Una sera mi ha lasciato i guanti in consegna ed è entrato in ospedale. Io ho sperato per mezz’ora che il furiere dimenticasse che ero rimasto solo occupante della mia cuccetta, ma, quando già era suonato il silenzio, la cuccetta ha tremato e un tipo lungo e rosso, con il numero dei francesi di Drancy (1), si è arrampicato accanto a me.
Avere un compagno di letto di statura alta è una sciagura, vuol dire perdere ore di sonno; e a me toccano proprio sempre compagni alti, perché io sono piccolo e due alti insieme non possono dormire. Ma invece si è visto subito che Resnyk, malgrado ciò, non era un cattivo compagno. Parlava poco e cortesemente, era pulito, non russava, non si alzava che due o tre volte per notte e sempre con molta delicatezza. Al mattino si è offerto di fare lui il letto (questa è una operazione complicata e penosa, e inoltre comporta una notevole responsabilità perché quelli che rifanno male il letto, gli «schlechte Bettenbauer», vengono diligentemente puniti), e lo ha fatto rapidamente e bene; in modo che ho provato un certo fugace piacere nel vedere, più tardi in piazza dell’Appello, che è stato aggregato al mio Kommando.
Nella marcia verso il lavoro, vacillanti nei grossi zoccoli sulla neve gelata, abbiamo scambiato qualche parola, e ho saputo che Resnyk è polacco; ha vissuto vent’anni a Parigi, ma parla un francese incredibile. Ha trent’anni, ma, come a tutti noi, gliene potresti dare da diciassette a cinquanta. Mi ha raccontato la sua storia, e oggi l’ho dimenticata, ma era certo una storia dolorosa, crudele e commovente; ché tali sono tutte le nostre storie, centinaia di migliaia di storie, tutte diverse e tutte piene di una tragica sorprendente necessità. Ce le raccontiamo a vicenda a sera, e sono avvenute in Norvegia, in Italia, in Algeria, in Ucraina, e sono semplici e incomprensibili come le storie della Bibbia. Ma non sono anch’esse storie di una nuova Bibbia?

Quando siamo arrivati al cantiere, ci hanno condotti alla Eisenröhreplatz, che è la spianata dove si scaricano i tubi di ferro, e poi hanno cominciato ad avvenire le solite cose. Il Kapo ha rifatto l’appello, ha preso brevemente atto del nuovo acquisto, si è accordato col Meister civile sul lavoro di oggi. Poi ci ha affidati al Vorarbeiter (2) e se ne è andato a dormire nella capanna degli attrezzi, vicino alla stufa; questo non è un Kapo che dia noia, perché non è ebreo e non ha paura di perdere il posto. Il Vorarbeiter ha distribuito le leve di ferro a noi e le binde (3) ai suoi amici; è avvenuta la solita piccola lotta per conquistare le leve più leggere, e oggi a me è andata male, la mia è quella storta, che pesa forse quindici chili; so che, se anche la dovessi adoperare a vuoto, dopo mezz’ora sarò morto di fatica.
Poi ce ne siamo andati, ciascuno con la sua leva, zoppicando nella neve in disgelo. A ogni passo, un po’ di neve e di fango aderiscono alle nostre suole di legno, finché si cammina instabili su due pesanti ammassi informi di cui non ci si riesce a liberare; a un tratto uno si stacca, e allora è come se una gamba fosse un palmo più corta dell’altra.
Oggi bisogna scaricare dal vagone un enorme cilindro di ghisa: credo che sia un tubo di sintesi, peserà parecchie tonnellate. Per noi è meglio così, perché notoriamente si fatica di meno coi grandi carichi che coi piccoli; infatti il lavoro è più suddiviso e ci vengono concessi attrezzi adeguati; però siamo in pericolo, non bisogna mai distrarsi, basta una svista di un attimo e si può essere travolti.
Meister Nogalla in persona, il capomastro polacco, rigido serio e taciturno, ha sorvegliato l’operazione di scarico. Ora il cilindro giace al suolo e Meister Nogalla dice: - Bohlen holen.
A noi si svuota il cuore. Vuol dire «portare traversine» per costruire nel fango molle la via su cui il cilindro verrà sospinto colle leve fin dentro la fabbrica. Ma le traversine sono incastrate nel terreno, e pesano ottanta chili; sono all’incirca al limite delle nostre forze. I più robusti di noi possono, lavorando in coppia, portare traversine per qualche ora; per me è una tortura, il carico mi storpia l’osso della spalla, dopo il primo viaggio sono sordo e quasi cieco per lo sforzo, e commetterei qualunque bassezza per sottrarmi al secondo.
Proverò a mettermi in coppia con Resnyk, che pare un buon lavoratore, e inoltre, essendo di alta statura, verrà a sopportare la maggior parte del peso. So che è nell’ordine delle cose che Resnyk mi rifiuti con disprezzo, e si metta in coppia con un altro individuo robusto; e allora io chiederò di andare alla latrina, e ci starò il più a lungo possibile, e poi cercherò di nascondermi con la certezza di essere immediatamente rintracciato, deriso e percosso; ma tutto è meglio di questo lavoro.
Invece no: Resnyk accetta, non solo, ma solleva da solo la traversina e me l’appoggia sulla spalla destra con precauzione; poi alza l’altra estremità, vi pone sotto la spalla sinistra e partiamo.
La traversina è incrostata di neve e di fango, a ogni passo mi batte contro l’orecchio e la neve mi scivola nel collo. Dopo una cinquantina di passi sono al limite di quanto si suole chiamare la normale sopportazione: le ginocchia si piegano, la spalla duole come stretta in una morsa, l’equilibrio è in pericolo. A ogni passo sento le scarpe succhiate dal fango avido, da questo fango polacco onnipresente il cui orrore monotono riempie le nostre giornate.
Mi mordo profondamente le labbra: a noi è noto che il procurarsi un piccolo dolore estraneo serve come stimolante per mobilitare le estreme riserve di energia. Anche i Kapos lo sanno: alcuni ci percuotono per pura bestialità e violenza, ma ve ne sono altri che ci percuotono quando siamo sotto il carico, quasi amorevolmente, accompagnando le percosse con esortazioni e incoraggiamenti, come fanno i carrettieri coi cavalli volenterosi.
Arrivati al cilindro, scarichiamo a terra la traversina, e io resto impalato, cogli occhi vuoti, la bocca aperta e le braccia penzoloni, immerso nella estasi effimera e negativa della cessazione del dolore. In un crepuscolo di esaurimento, attendo lo spintone che mi costringerà a riprendere il lavoro, e cerco di profittare di ogni secondo dell’attesa per ricuperare qualche energia.
Ma lo spintone non viene; Resnyk mi tocca il gomito, il più lentamente possibile ritorniamo alle traversine. Là si aggirano gli altri, a coppie, cercando tutti di indugiare quanto più possono prima di sottoporsi al carico.
- Allons, petit, attrape (4) -. Questa traversina è asciutta e un po’ più leggera, ma alla fine del secondo viaggio mi presento al Vorarbeiter e chiedo di andare alla latrina.
Noi abbiamo il vantaggio che la nostra latrina è piuttosto lontana; questo ci autorizza, una volta al giorno, a una assenza un po’ più lunga che di norma, e inoltre, poiché è proibito recarvisi da soli, ne è seguito che Wachsmann, il più debole e maldestro del Kommando, è stato investito della carica di Scheissbegleiter, «accompagnatore alle latrine»; Wachsmann, per virtù di tale nomina, è responsabile di un nostro ipotetico (risibile ipotesi!) tentativo di fuga, e, più realisticamente, di ogni nostro ritardo.
Poiché la mia domanda è stata accettata, me ne parto nel fango, nella neve grigia e tra i rottami metallici, scortato dal piccolo Wachsmann. Con questo non riesco a intendermi, perché non abbiamo alcuna lingua in comune; ma i suoi compagni mi hanno detto che è rabbino, è anzi un Melamed (5), un dotto della Thorà (6), e inoltre, al suo paese, in Galizia, aveva fama di guaritore e di taumaturgo. Né sono lontano dal crederlo, pensando come, così esile e fragile e mite, riesca da due anni a lavorare senza ammalarsi e senza morire, acceso invece di una stupefacente vitalità di sguardo e di parola, per cui passa lunghe sere a discutere di questioni talmudiche (7), incomprensibilmente, in yiddisch e in ebraico, con Mendi che è rabbino modernista.
La latrina è un’oasi di pace. È una latrina provvisoria, che i tedeschi non hanno ancora provveduto delle consuete tramezze in legno che separano i vari scompartimenti: «Nur für Engländer», « Nur für Polen», «Nur für Ukrainische Frauen» e così via, e, un po’ in disparte, «Nur für Häftlinge» (8). All’interno, spalla a spalla, siedono quattro Häftlinge famelici; un vecchio barbuto operaio russo con la fascia azzurra OST (9) sul braccio sinistro; un ragazzo polacco, con una grande P bianca sulla schiena e sul petto; un prigioniero militare inglese, dal viso splendidamente rasato e roseo, con la divisa kaki nitida, stirata e pulita, a parte il grosso marchio KG (Kriegsgefangener) sul dorso. Un quinto Häftling sta sulla porta, e ad ogni civile che entra sfilandosi la cintola, chiede paziente e monotono: - Etes-vous français? (10)
Quando ritorno al lavoro, si vedono passare gli autocarri del rancio, il che vuol dire che sono le dieci, e questa è già un’ora rispettabile, tale che la pausa di mezzogiorno già si profila nella nebbia del futuro remoto e noi possiamo cominciare ad attingere energia dall’attesa.
Faccio con Resnyk ancora due o tre viaggi, cercando con ogni cura, anche spingendoci a cataste lontane, di trovare traversine più leggere, ma ormai tutte le migliori sono già state trasportate, e non restano che le altre, atroci, dagli spigoli vivi, pesanti di fango e ghiaccio, con inchiodate le piastre metalliche per adattarvi le rotaie.
Quando viene Franz a chiamare Wachsmann perché vada con lui a ritirare il rancio, vuol dire che sono le undici, e il mattino è quasi passato, e al pomeriggio nessuno pensa. Poi c’è il ritorno della corvée, alle undici e mezzo, e l’interrogatorio stereotipo, quanta zuppa oggi, e di che qualità, e se ci è toccata dal principio o dal fondo del mastello; io mi sforzo di non farle, queste domande, ma non posso impedirmi di tendere avidamente l’orecchio alle risposte, e il naso al fumo che viene col vento dalla cucina.
E finalmente, come una meteora celeste, sovrumana e impersonale come un segno divino, la sirena di mezzogiorno esplode a esaudire le nostre stanchezze e le nostre fami anonime e concordi. E di nuovo accadono le cose solite: tutti accorriamo alla baracca, e ci mettiamo in fila colle gamelle tese, e tutti abbiamo una fretta animalesca di perfonderci i visceri (11) con l’intruglio caldo, ma nessuno vuol essere il primo, perché al primo tocca la razione più liquida. Come al solito, il Kapo ci irride e ci insulta per la nostra voracità, e si guarda bene dal rimescolare la marmitta, perché il fondo spetta notoriamente a lui. Poi viene la beatitudine (positiva questa, e viscerale) della distensione e del calore nel ventre e nella capanna intorno alla stufa rombante. I fumatori, con gesti avari e pii, si arrotolano una magra sigaretta, e gli abiti di tutti, madidi di fango e di neve, fumano densi alla vampa della stufa, con odore di canile e di gregge.
Una tacita convenzione vuole che nessuno parli: in un minuto tutti dormono, serrati gomito a gomito, cascando improvvisi in avanti e riprendendosi con un irrigidirsi del dorso. Di dietro alle palpebre appena chiuse, erompono i sogni con violenza, e anche questi sono i soliti sogni. Di essere a casa nostra, in un meraviglioso bagno caldo. Di essere a casa nostra seduti a tavola. Di essere a casa e raccontare questo nostro lavorare senza speranza, questo nostro aver fame sempre, questo nostro dormire di schiavi.
Poi, in seno ai vapori delle digestioni torpide, un nucleo doloroso si condensa, e ci punge, e cresce fino a varcare le soglie della coscienza, e ci toglie la gioia del sonno. «Es wird bald ein Uhr sein»: è quasi la una. Come un cancro rapido e vorace, fa morire il nostro sonno e ci stringe di angoscia preventiva: tendiamo l’orecchio al vento che fischia fuori e al leggero fruscio della neve contro il vetro, «es wird schnell ein Uhr sein». Mentre ognuno si aggrappa al sonno perché non ci abbandoni, tutti i sensi sono tesi nel raccapriccio del segnale che sta per venire, che è fuori della porta, che è qui...
Eccolo. Un tonfo al vetro, Meister Nogalla ha lanciato contro la finestrella una palla di neve, ed ora sta rigido in piedi fuori, e tiene l’orologio col quadrante rivolto verso di noi. Il Kapo si alza in piedi, si stira, e dice, sommesso come chi non dubita di essere obbedito: - Alles heraus, - tutti fuori.

Oh poter piangere! Oh poter affrontare il vento come un tempo facevamo, da pari a pari, e non come qui, come vermi vuoti di anima!
Siamo fuori, e ciascuno riprende la sua leva. Resnyk insacca la testa fra le spalle, si calca il berretto sugli orecchi, e leva il viso al cielo basso e grigio da cui turbina la neve inesorabile: - Si j’avey une chien, je ne le chasse pas dehors. (12)

(1) I francesi di Drancy sono i prigionieri provenienti dal campo di concentramento di Drancy, messo in piedi in Francia dai nazisti durante l’occupazione.
(2) Vorarbeiter = caposquadra.
(3) Binde = le macchine per sollevare dei carichi.
(4) Allons, petit, attrape = Andiamo, piccolo, prendi.
(5) Melamed = maestro, insegnante.
(6) Thorà = scritto anche Torah, è un termine dai numerosi significati, che, semplificando, si può spiegare come l’insieme degli insegnamenti religiosi del popolo ebraico.
(7) Questioni talmudiche = problemi relativi all’interpretazione del Talmud, uno dei testi sacri dell’ebraismo.
(8) Nur für = solo per (inglesi, polacchi, donne ucraine, detenuti).
(9) OST = Est. E poi P = Polacco, Kriegsgefangener = prigioniero di guerra.
(10) Etes-vous français? = Sei francese?
(11) Perfonderci i viscere = farci entrare nelle viscere, ingurgitare.
(12) Si j’avey une chien, je ne le chasse pas dehors = Se avessi un cane, non lo caccerei fuori (intendendo, con un tempo simile).

Prigionieri al lavoro ad Auschwitz






Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.