lunedì 16 gennaio 2017

47 Se questo è un uomo - capitolo 14: KRAUS (di Primo Levi)




Nel quattordicesimo capitolo Primo Levi racconta di un giorno di lavoro sotto la pioggia e di un ungherese, Kraus, da poco in Lager e quindi inesperto delle condizioni a cui i prigionieri sono costretti: “non vivrà a lungo qui dentro”, pensa l’autore e gli racconta di averlo sognato in una situazione felice, completamente diversa dalla realtà in cui i due si trovano, fino a provocare in lui una commozione enorme.

KRAUS

Quando piove si vorrebbe poter piangere. È novembre, piove già da dieci giorni, e la terra è come il fondo di una palude. Ogni cosa di legno ha odore di funghi.
Se potessi fare dieci passi a sinistra, c’è la tettoia, sarei al riparo; mi basterebbe anche un sacco per coprirmi le spalle, o solamente la speranza di un fuoco dove asciugarmi; o magari un cencio asciutto da mettermi fra la camicia e la schiena. Ci penso, fra un colpo di pala e l’altro, e credo proprio che avere un cencio asciutto sarebbe felicità positiva.
Ormai più bagnati non si può diventare; solo bisogna cercare di muoversi il meno possibile, e soprattutto di non fare movimenti nuovi, perché non accada che qualche altra porzione di pelle venga senza necessità a contatto con gli abiti zuppi e gelidi.
È fortuna che oggi non tira vento. Strano, in qualche modo si ha sempre l’impressione di essere fortunati, che una qualche circostanza, magari infinitesima, ci trattenga sull’orlo della disperazione e ci conceda di vivere. Piove, ma non tira vento. Oppure, piove e tira vento: ma sai che stasera tocca a te il supplemento di zuppa, e allora anche oggi trovi la forza di tirar sera. O ancora, pioggia, vento, e la fame consueta, e allora pensi che se proprio dovessi, se proprio non ti sentissi più altro nel cuore che sofferenza e noia, come a volte succede, che pare veramente di giacere sul fondo; ebbene, anche allora noi pensiamo che se vogliamo, in qualunque momento, possiamo pur sempre andare a toccare il reticolato elettrico, o buttarci sotto i treni in manovra, e allora finirebbe di piovere.

Da stamattina stiamo confitti nella melma, a gambe larghe, senza mai muovere i piedi dalle due buche che si sono scavati nel terreno vischioso; oscillando sulle anche a ogni colpo di pala. Io sono a metà dello scavo, Kraus e Clausner sono sul fondo, Gounan sopra di me, a livello del suolo. Solo Gounan può guardarsi intorno, e a monosillabi avvisa ogni tanto Kraus dell’opportunità di accelerare il ritmo, o eventualmente di riposarsi, a seconda di chi passa per la strada. Clausner piccona, Kraus alza la terra a me palata per palata, e io a mano a mano la alzo a Gounan che la ammucchia a lato. Altri fanno la spola con le carriole e portano la terra chissà dove, non ci interessa, oggi il nostro mondo è questa buca di fango.
Kraus ha sbagliato un colpo, un pacchetto di mota vola e mi si spiaccica sulle ginocchia. Non è la prima volta che succede, senza molta fiducia lo ammonisco di fare attenzione: è ungherese, capisce assai male il tedesco, e non sa una parola di francese. È lungo lungo, ha gli occhiali e una curiosa faccia piccola e storta; quando ride sembra un bambino, e ride spesso. Lavora troppo, e troppo vigorosamente: non ha ancora imparato la nostra arte sotterranea di fare economia di tutto, di fiato, di movimenti, perfino di pensiero. Non sa ancora che è meglio farsi picchiare, perché di botte in genere non si muore, ma di fatica sì, e malamente, e quando uno se ne accorge è già troppo tardi. Pensa ancora... oh no, povero Kraus, non è ragionamento il suo, è solo la sua sciocca onestà di piccolo impiegato, se la è portata fin qui dentro, e ora gli pare che sia come fuori, dove lavorare è onesto e logico, e inoltre conveniente, perché, a quanto tutti dicono, quanto più uno lavora, tanto più guadagna e mangia.
- Regardez-moi ça!... Pas si vite, idiot! - impreca Gounan dall’alto; poi si ricorda di tradurre in tedesco: Langsam, du blöder Einer, langsam, verstanden? -; Kraus può anche ammazzarsi di fatica, se crede, ma non oggi, che lavoriamo in catena e il ritmo del nostro lavoro è condizionato dal suo.
Ecco, questa è la sirena del Carburo, adesso i prigionieri inglesi se ne vanno, sono le quattro e mezzo. Poi passeranno le ragazze ucraine, e allora saranno le cinque, potremo raddrizzare la schiena, e ormai solo la marcia di ritorno, l’appello e il controllo dei pidocchi ci divideranno dal riposo.
È l’adunata, « Antreten» da tutte le parti; da tutte le parti strisciano fuori i fantocci di fango, stirano le membra aggranchite, riportano gli attrezzi nelle baracche. Noi estraiamo i piedi dal fosso, cautamente per non lasciarvi succhiati gli zoccoli e ce ne andiamo, ciondolanti e grondanti, a inquadrarci per la marcia di rientro. «Zu dreien», per tre. Ho cercato di mettermi vicino ad Alberto, oggi abbiamo lavorato separati, abbiamo da chiederci a vicenda come è andata: ma qualcuno mi ha dato una manata sullo stomaco, sono finito dietro, guarda, proprio vicino a Kraus.
Ora partiamo. Il Kapo scandisce il passo con voce dura: - Links, links, links -; dapprima si ha male ai piedi, poi a poco a poco ci si riscalda e i nervi si distendono. Anche oggi, anche questo oggi che stamattina pareva invincibile ed eterno, l’abbiamo perforato attraverso tutti i suoi minuti; adesso giace conchiuso ed è subito dimenticato, già non è più un giorno, non ha lasciato traccia nella memoria di nessuno. Lo sappiamo, che domani sarà come oggi: forse pioverà un po’ di più o un po’ di meno, o forse invece di scavar terra andremo al Carburo a scaricar mattoni. O domani può anche finire la guerra, o noi essere tutti uccisi, o trasferiti in un altro campo, o capitare qualcuno di quei grandi rinnovamenti che, da che Lager è Lager, vengono infaticabilmente pronosticati imminenti e sicuri. Ma chi mai potrebbe seriamente pensare a domani?
La memoria è uno strumento curioso: finché sono stato in campo, mi hanno danzato per il capo due versi che ha scritto un mio amico molto tempo fa:

               ... infin che un giorno
               senso non avrà più dire: domani.

Qui è così. Sapete come si dice «mai» nel gergo del campo? «Morgen früh», domani mattina.

Adesso è l’ora di «links, links, links und links», l’ora in cui non bisogna sbagliare passo. Kraus è maldestro, si è già preso un calcio dal Kapo perché non sa camminare allineato: ed ecco, incomincia a gesticolare e a masticare un tedesco miserevole, odi odi, mi vuole chiedere scusa della palata di fango, non ha ancora capito dove siamo, bisogna proprio dire che gli ungheresi sono gente singolare.
Andare al passo e fare un discorso complicato in tedesco, è ben troppo, questa volta sono io che lo avverto che ha il passo sbagliato, e lo ho guardato, e ho visto i suoi occhi, dietro le gocciole di pioggia degli occhiali, e sono stati gli occhi dell’uomo Kraus.
Allora avvenne un fatto importante, e mette conto di raccontarlo adesso, forse per la stessa ragione per cui metteva conto che avvenisse allora. Mi accadde di fare un lungo discorso a Kraus: in cattivo tedesco, ma lento e staccato, sincerandomi, dopo ogni frase, che lui l’avesse capita.
Gli raccontai che avevo sognato di essere a casa mia, nella casa dove ero nato, seduto con la mia famiglia, con le gambe sotto il tavolo, e sopra molta, moltissima roba da mangiare. Ed era d’estate, ed era in Italia: a Napoli? ... ma sì, a Napoli, non è il caso di sottilizzare. Ed ecco, a un tratto suonava il campanello, e io mi alzavo pieno di ansia, e andavo ad aprire, e chi si vedeva? Lui, il qui presente Kraus Pali, coi capelli, pulito e grasso, e vestito da uomo libero, e in mano una pagnotta. Da due chili, ancora calda. Allora « Servus, Pali, wie geht’s?» e mi sentivo pieno di gioia, e lo facevo entrare e spiegavo ai miei chi era, e che veniva da Budapest, e perché era così bagnato: perché era bagnato, così, come adesso. E gli davo da mangiare e da bere, e poi un buon letto per dormire, ed era notte, ma c’era un meraviglioso tepore per cui in un momento eravamo tutti asciutti (sì, perché anch’io ero molto bagnato).
Che buon ragazzo doveva essere Kraus da borghese: non vivrà a lungo qui dentro, questo si vede al primo sguardo e si dimostra come un teorema. Mi dispiace non sapere l’ungherese, ecco che la sua commozione ha rotto gli argini, ed erompe in una marea di bislacche parole magiare. Non ho potuto capire altro che il mio nome, ma dai gesti solenni si direbbe che giura ed augura.
Povero sciocco Kraus. Se sapesse che non è vero, che non ho sognato proprio niente di lui, che per me anche lui è niente, fuorché in un breve momento, niente come tutto è niente quaggiù, se non la fame dentro, e il freddo e la pioggia intorno.







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