venerdì 13 gennaio 2017

33 Se questo è un uomo - Poesia introduttiva (di Primo Levi)



VOI CHE VIVERE SICURI

Il romanzo “Se questo è un uomo” venne pubblicato nel 1947 presso il piccolo editore De Silva, di Franco Antonicelli; con esso Primo Levi voleva rendere testimonianza del periodo di prigionia da lui trascorso nel campo di Monowitz, che faceva parte del complesso di Auschwitz. Ripubblicato da Einaudi (che l’aveva inizialmente rifiutato) nel 1958, ottenne un enorme successo, diventando una delle opere narrative più famose al mondo, tra quelle che hanno raccontato l’Olocausto. Inizia con una breve poesia, in cui l’autore esprime con pochi tratti la condizione disumana dei prigionieri nei campi di concentramento, per poi invitare al ricordo di quei fatti e lanciare una maledizione quasi biblica contro chi dimenticasse “che questo è stato”. Segue una breve Prefazione dell’autore.

Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
     Considerate se questo è un uomo
     Che lavora nel fango
     Che non conosce pace
     Che lotta per mezzo pane
     Che muore per un sì o per un no.
     Considerate se questa è una donna,
     Senza capelli e senza nome
     Senza più forza di ricordare
     Vuoti gli occhi e freddo il grembo
     Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
     O vi si sfaccia la casa,
     La malattia vi impedisca,
     I vostri nati torcano il viso da voi.

PREFAZIONE

Per mia fortuna, sono stato deportato ad Auschwitz solo nel 1944, e cioè dopo che il governo tedesco, data la crescente scarsità di manodopera, aveva stabilito di allungare la vita media dei prigionieri da eliminarsi, concedendo sensibili miglioramenti nel tenor di vita e sospendendo temporaneamente le uccisioni ad arbitrio dei singoli.
Perciò questo mio libro, in fatto di particolari atroci, non aggiunge nulla a quanto è ormai noto ai lettori di tutto il mondo sull’inquietante argomento dei campi di distruzione. Esso non è stato scritto allo scopo di formulare nuovi capi di accusa; potrà piuttosto fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano. A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che «ogni straniero è nemico». Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager. Esso è il prodotto di una concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa coerenza: finché la concezione sussiste, le conseguenze ci minacciano. La storia dei campi di distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo.
Mi rendo conto e chiedo venia dei difetti strutturali del libro. Se non di fatto, come intenzione e come concezione esso è nato già fin dai giorni di Lager. Il bisogno di raccontare agli «altri», di fare gli «altri» partecipi, aveva assunto fra noi, prima della liberazione e dopo, il carattere di un impulso immediato e violento, tanto da rivaleggiare con gli altri bisogni elementari: il libro è stato scritto per soddisfare a questo bisogno; in primo luogo quindi a scopo di liberazione interiore. Di qui il suo carattere frammentario: i capitoli sono stati scritti non in successione logica, ma per ordine di urgenza. Il lavoro di raccordo e di fusione è stato svolto su piano ed è posteriore.

Mi pare superfluo aggiungere che nessuno dei fatti è inventato.

Il campo di concentramento di Auschwitz (Polonia) oggi






Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.