giovedì 12 gennaio 2017

32 Divina commedia - Inferno: canto ventesimosesto (di Dante Alighieri)

LA DIVINA COMMEDIA – INFERNO: CANTO VENTESIMOSESTO (di Dante Alighieri)


I POLITICI FRODOLENTI – ULISSE E DIOMEDE

Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande
che per mare e per terra batti l’ali,
e per lo ’nferno tuo nome si spande!

Tra li ladron trovai cinque cotali
tuoi cittadini onde mi ven vergogna,
e tu in grande orranza non ne sali.

Ma se presso al mattin del ver si sogna,
tu sentirai, di qua da picciol tempo,
di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna.

E se già fosse, non saria per tempo.
Così foss’ei, da che pur esser dee!
ché più mi graverà, com’ più m’attempo.

Noi ci partimmo, e su per le scalee
che n’avea fatto i borni a scender pria,
rimontò ’l duca mio e trasse mee;

e proseguendo la solinga via,
tra le schegge e tra’ rocchi de lo scoglio
lo piè sanza la man non si spedia.

Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,
e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio,

perché non corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa
m’ha dato ’l ben, ch’io stessi nol m’invidi.

Quante il villan ch’al poggio si riposa,
nel tempo che colui che ’l mondo schiara
la faccia sua a noi tien meno ascosa,

come la mosca cede a la zanzara,
vede lucciole giù per la vallea,
forse colà dov’e’ vendemmia ed ara:

di tante fiamme tutta risplendea
l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi
tosto che fui là ’ve ’l fondo parea.

E qual colui che si vengiò con li orsi
vide ’l carro d’Elia al dipartire,
quando i cavalli al cielo erti levorsi,

che nol potea sì con li occhi seguire,
ch’el vedesse altro che la fiamma sola,
sì come nuvoletta, in su salire:

tal si move ciascuna per la gola
del fosso, ché nessuna mostra il furto,
e ogni fiamma un peccatore invola.

Io stava sovra ’l ponte a veder surto,
sì che s’io non avessi un ronchion preso,
caduto sarei giù sanz’esser urto.

E ’l duca, che mi vide tanto atteso,
disse: «Dentro dai fuochi son li spirti;
ciascun si fascia di quel ch’elli è inceso».

«Maestro mio», rispuos’io, «per udirti
son io più certo; ma già m’era avviso
che così fosse, e già voleva dirti:

chi è in quel foco che vien sì diviso
di sopra, che par surger de la pira
dov’Eteòcle col fratel fu miso?».

Rispuose a me: «Là dentro si martira
Ulisse e Diomede, e così insieme
alla vendetta vanno come a l’ira;

e dentro dalla lor fiamma si geme
l’agguato del caval che fe’ la porta
onde uscì de’ Romani il gentil seme.

Piangevisi entro l’arte per che, morta,
Deidamía ancor si duol d’Achille,
e del Palladio pena vi si porta».

«S’ei posson dentro da quelle faville
parlar», diss’io, «maestro, assai ten priego
e ripriego, che il priego vaglia mille,

che non mi facci dell’attender niego
fin che la fiamma cornuta qua vegna;
vedi che del disio ver lei mi piego!».

Ed elli a me: «La tua preghiera è degna
di molta loda, e io però l’accetto;
ma fa che la tua lingua si sostegna.

Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto
ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi,
perché fuor greci, forse del tuo detto».

Poi che la fiamma fu venuta quivi
dove parve al mio duca tempo e loco,
in questa forma lui parlare audivi:

«O voi che siete due dentro ad un foco,
s’io meritai di voi mentre ch’io vissi,
s’io meritai di voi assai o poco

quando nel mondo li alti versi scrissi,
non vi movete; ma l’un di voi dica
dove per lui perduto a morir gissi».

Lo maggior corno della fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica;

indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori e disse: «Quando

mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enea la nomasse,

né dolcezza di figlio, né la pièta
del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelopé far lieta,

vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
e delli vizi umani e del valore;

ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola dalla qual non fui diserto.

L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola de’ Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna.

Io e’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’Ercule segnò li suoi riguardi,

acciò che l’uom più oltre non si metta;
dalla man destra mi lasciai Sibilia,
da l’altra già m’avea lasciata Setta.

"O frati", dissi, "che per cento milia
perigli siete giunti all’occidente,
a questa tanto picciola vigilia

de’ nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza".

Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;

e volta nostra poppa nel mattino,
dei remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.

Tutte le stelle già dell’altro polo
vedea la notte e ’l nostro tanto basso,
che non surgea fuor del marin suolo.

Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto dalla luna,
poi che ’ntrati eravam nell’alto passo,

quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avea alcuna.

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché della nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.

Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque;
alla quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,

infin che ’l mar fu sovra noi richiuso».

(testo secondo l'edizione di Natalino Sapegno, 1968)

PARAFRASI


a venire....




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