domenica 8 gennaio 2017

30 Divina commedia - Inferno: canto sesto (di Dante Alighieri)

LA DIVINA COMMEDIA – INFERNO: CANTO SESTO (di Dante Alighieri)



I GOLOSI – CERBERO – CIACCO

Nel terzo cerchio Dante incontra le ombre dei golosi prostrate nel fango, sotto una pioggia eterna mista di acqua fetida, di grandine e di neve. Cerbero, un cane a tre teste, assorda gli spiriti con il suo latrare incessante e con le mani unghiate li graffia e li squarta. Fra i golosi Dante riconosce un fiorentino, Ciacco, e gli chiede di predirgli il destino di Firenze; Ciacco gli accenna all’esito delle discordie civili della città e alla rovina della parte Bianca, in cui anche il poeta sarà coinvolto e travolto. Le cause delle lotte politiche feroci che rovinano Firenze sono tre: l’invidia, la superbia, la cupidigia dei suoi cittadini.

Al tornar de la mente, che si chiuse
dinanzi a la pietà de’ due cognati,
che di trestizia tutto mi confuse,

novi tormenti e novi tormentati
mi veggio intorno, come ch’io mi mova
e ch'’io mi volga, e come che io guati.

Io sono al terzo cerchio, de la piova
etterna, maladetta, fredda e greve;
regola e qualità mai non l’è nova.

Grandine grossa, acqua tinta e neve
per l’aere tenebroso si riversa;
pute la terra che questo riceve.

Cerbero, fiera crudele e diversa,
con tre gole caninamente latra
sovra la gente che quivi è sommersa.

Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,
e ’l ventre largo, e unghiate le mani;
graffia li spiriti, iscoia ed isquatra.

Urlar li fa la pioggia come cani;
de l’un de’ lati fanno a l’altro schermo;
volgonsi spesso i miseri profani.

Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,
le bocche aperse e mostrocci le sanne;
non avea membro che tenesse fermo.

E ’l duca mio distese le sue spanne,
prese la terra, e con piene le pugna
la gittò dentro a le bramose canne.

Qual è quel cane ch'abbaiando agugna,
e si racqueta poi che ’l pasto morde,
ché solo a divorarlo intende e pugna,

cotai si fecer quelle facce lorde
de lo demonio Cerbero, che ’ntrona
l’anime sì, ch’esser vorrebber sorde.

Noi passavam su per l’ombre che adona
la greve pioggia, e ponavam le piante
sovra lor vanità che par persona.

Elle giacean per terra tutte quante,
fuor d’una ch’a seder si levò, ratto
ch’ella ci vide passarsi davante.

«O tu che se’ per questo inferno tratto»,
mi disse, «riconoscimi, se sai:
tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto».

E io a lui: «L’angoscia che tu hai
forse ti tira fuor de la mia mente,
sì che non par ch’i’ ti vedessi mai.

Ma dimmi chi tu se’ che ’n sì dolente
loco se’ messo, e hai sì fatta pena,
che s’altra è maggio, nulla è sì spiacente».

Ed elli a me: «La tua città, ch’è piena
D’invidia sì che già trabocca il sacco,
seco mi tenne in la vita serena.

Voi cittadini mi chiamaste Ciacco:
per la dannosa colpa de la gola,
come tu vedi, a la pioggia mi fiacco.

E io anima trista non son sola,
ché tutte queste a simil pena stanno
per simil colpa». E più non fe’ parola.

Io li rispuosi: «Ciacco, il tuo affanno
mi pesa sì, ch’a lagrimar mi ’nvita;
ma dimmi, se tu sai, a che verranno

li cittadin de la città partita;
s’alcun v’è giusto; e dimmi la cagione
per che l’ha tanta discordia assalita».

E quelli a me: «Dopo lunga tencione
verranno al sangue, e la parte selvaggia
caccerà l’altra con molta offensione.

Poi appresso convien che questa caggia
infra tre soli, e che l’altra sormonti
con la forza di tal che testé piaggia.

Alte terrà lungo tempo le fronti,
tenendo l’altra sotto gravi pesi,
come che di ciò pianga o che n’adonti.

Giusti son due, e non vi sono intesi;
superbia, invidia e avarizia sono
le tre faville c’hanno i cuori accesi».

Qui puose fine al lacrimabil sono;
e io a lui: «Ancor vo’ che m’insegni
e che di più parlar mi facci dono.

Farinata e ’l Tegghiaio, che fuor sì degni,
Iacopo Rusticucci, Arrigo e ’l Mosca
e li altri ch’a ben far puoser li ’ngegni,

dimmi ove sono e fa ch’io li conosca;
ché gran disio mi stringe di savere
se ’l ciel li addolcia o lo ’nferno li attosca».

E quelli: «Ei son tra l’anime più nere;
diverse colpe giù li grava al fondo:
se tanto scendi, là i potrai vedere.

Ma quando tu sarai nel dolce mondo,
priegoti ch’a la mente altrui mi rechi:
più non ti dico e più non ti rispondo».

Li diritti occhi torse allora in biechi;
guardommi un poco e poi chinò la testa:
cadde con essa a par de li altri ciechi.

E ’l duca disse a me: «Più non si desta
di qua dal suon de l’angelica tromba,
quando verrà la nimica podèsta:

ciascun rivederà la trista tomba,
ripiglierà sua carne e sua figura,
udirà quel ch’in etterno rimbomba».

Sì trapassammo per sozza mistura
dell’ombre e della pioggia, a passi lenti,
toccando un poco la vita futura;

per ch’io dissi: «Maestro, esti tormenti
crescerann’ei dopo la gran sentenza,
o fier minori, o saran sì cocenti?».

Ed elli a me: «Ritorna a tua scienza,
che vuol, quanto la cosa è più perfetta,
più senta il bene, e così la doglienza.

Tutto che questa gente maladetta
in vera perfezion già mai non vada,
di là più che di qua essere aspetta».

Noi aggirammo a tondo quella strada,
parlando più assai ch’io non ridico;
venimmo al punto dove si digrada:

quivi trovammo Pluto, il gran nemico.


(testo secondo l'edizione di Natalino Sapegno, 1968)

PARAFRASI:

Al ritornar delle mie facoltà, che si erano chiuse per la pietà nei confronti dei due cognati [Paolo e Francesca, vedi canto V], che tutto mi confuse per la tristezza,
nuovi tormenti e nuovi tormentati mi vedo d’attorno, comunque io mi muova e che io mi giri, comunque guardi.
Io mi trovo nel terzo cerchio, della pioggia eterna, maledetta, fredda e pesante; non cambia mai regola e qualità [cioè scenderà sempre uguale e allo stesso modo].
Grossa grandine, acqua scura e neve si riversano nell’aria tenebrosa; puzza la terra che riceve tutto questo.
Cerbero [un cane a tre teste della mitologia antica, con coda e crini di serpente], fiera crudele e mostruosa, con tre gole latra caninamente sopra la gente che è qui sommersa.
Ha gli occhi vermigli, la barba unta e sudicia, e il ventre ampio e le mani unghiate; graffia gli spiriti, li scuoia e li squarta.
La pioggia li fa urlare come cani: pongono con un fianco riparo all’altro; i miseri peccatori si voltano spesso.
Quando ci scorse Cerbero, il grande vermo [termine dispregiativo per indicare un essere sozzo e mostruoso], aprì le bocche e ci mostrò le zanne; non aveva un membro che tenesse fermo [cioè si agitava tutto, in tutto il corpo].
E il mio duca [la mia guida, cioè Virgilio] aprì le sue spanne, prese della terra e con i pugni pieni la gettò dentro alle gole bramose.
Come quel cane che abbaiando agogna [cioè esprime la sua fame], e si acqueta solo dopo aver morso il pasto, poiché è intento e si affatica soltanto per divorarlo,
così si fecero quelle facce lorde del demonio Cerbero, che assorda talmente le anime, che vorrebbero essere sorde [per non sentirlo].


continua







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