sabato 14 gennaio 2017

36 Se questo è un uomo - capitolo 3: INIZIAZIONE (di Primo Levi)





Nel terzo capitolo di “Se questo è un uomo” l’autore descrive alcune circostanze della vita in lager (la condivisione di una cuccetta con un altro, la distribuzione del pane, l’azione del lavarsi) e impara che per restare vivi, bisogna opporsi al degrado fisico e morale cui il campo di concentramento spinge i prigionieri.

INIZIAZIONE

Dopo i primi giorni di capricciosi trasferimenti da blocco a blocco e da Kommando a Kommando, a sera tarda, sono stato assegnato al Block 30, e mi viene indicata una cuccetta in cui già dorme Diena. Diena si sveglia, e, benché esausto, mi fa posto e mi riceve amichevolmente.
Io non ho sonno, o per meglio dire il mio sonno è mascherato da uno stato di tensione e di ansia da cui non sono ancora riuscito a liberarmi, e perciò parlo e parlo.
Ho troppe cose da chiedere. Ho fame, e quando domani distribuiranno la zuppa, come farò a mangiarla senza cucchiaio? e come si può avere un cucchiaio? e dove mi manderanno a lavorare? Diena ne sa quanto me, naturalmente, e mi risponde con altre domande. Ma da sopra, da sotto, da vicino, da lontano, da tutti gli angoli della baracca ormai buia, voci assonnate e iraconde mi gridano: - Ruhe, Ruhe! (1)
Capisco che mi si impone il silenzio, ma questa parola è per me nuova, e poiché non ne conosco il senso e le implicazioni, la mia inquietudine cresce. La confusione delle lingue è una componente fondamentale del modo di vivere di quaggiù; si è circondati da una perpetua Babele, in cui tutti urlano ordini e minacce in lingue mai prima udite, e guai a chi non afferra a volo. Qui nessuno ha tempo, nessuno ha pazienza, nessuno ti dà ascolto; noi ultimi venuti ci raduniamo istintivamente negli angoli, contro i muri, come fanno le pecore, per sentirci le spalle materialmente coperte.
Rinuncio dunque a fare domande, e in breve scivolo in un sonno amaro e teso. Ma non è riposo: mi sento minacciato, insidiato, ad ogni istante sono pronto a contrarmi in uno spasimo di difesa. Sogno, e mi pare di dormire su una strada, su un ponte, per traverso di una porta per cui va e viene molta gente. Ed ecco giunge, ahi quanto presto, la sveglia. L’intera baracca si squassa dalle fondamenta, le luci si accendono, tutti intorno a me si agitano in una repentina attività frenetica: scuotono le coperte suscitando nembi di polvere fetida, si vestono con fretta febbrile, corrono fuori nel gelo dell’aria esterna vestiti a mezzo, si precipitano verso le latrine e il lavatoio; molti, bestialmente, orinano correndo per risparmiare tempo, perché entro cinque minuti inizia la distribuzione del pane, del pane-Brot-Broit-chleb-pain-lechemkenyér (2), del sacro blocchetto grigio che sembra gigantesco in mano del tuo vicino, e piccolo da piangere in mano tua. È una allucinazione quotidiana, a cui si finisce col fare l’abitudine: ma nei primi tempi è così irresistibile che molti fra noi, dopo lungo discutere a coppie sulla propria palese e costante sfortuna, e sfacciata fortuna altrui, si scambiano infine le razioni, al che l’illusione si ripristina invertita lasciando tutti scontenti e frustrati.
Il pane è anche la nostra sola moneta: nei pochi minuti che intercorrono fra la distribuzione e la consumazione, il Block risuona di richiami, di liti e di fughe. Sono i creditori di ieri che pretendono il pagamento, nei brevi istanti in cui il debitore è solvibile. Dopo di che, subentra una relativa quiete, e molti ne approfittano per recarsi nuovamente alle latrine a fumare mezza sigaretta, o al lavatoio per lavarsi veramente.
Il lavatoio è un locale poco invitante. È male illuminato, pieno di correnti d’aria, e il pavimento di mattoni è coperto da uno strato di fanghiglia; l’acqua non è potabile, ha un odore disgustoso e spesso manca per molte ore. Le pareti sono decorate da curiosi affreschi didascalici: vi si vede ad esempio lo Häftling buono, effigiato nudo fino alla cintola, in atto di insaponarsi diligentemente il cranio ben tosato e roseo, e lo Häftling cattivo, dal naso fortemente semitico e dal colorito verdastro, il quale, tutto infagottato negli abiti vistosamente macchiati, e col berretto in testa, immerge cautamente un dito nell’acqua del lavandino. Sotto al primo sta scritto: «So bist du rein» (così sei pulito), e sotto al secondo: «So gehst du ein» (così vai in rovina); e più in basso, in dubbio francese ma in caratteri gotici: «La propreté, c’est la sante» (3).
Sulla parete opposta campeggia un enorme pidocchio bianco rosso e nero, con la scritta: «Eine Laus, dein Tod» (un pidocchio è la tua morte), e il distico (4) ispirato:
Nach dem Abort, vor dem Essen
Hände waschen, nicht vergessen
(dopo la latrina, prima di mangiare, lavati le mani, non dimenticare).
Per molte settimane, ho considerato questi ammonimenti all’igiene come puri tratti di spirito teutonico, nello stile del dialogo relativo al cinto erniario con cui eravamo stati accolti al nostro ingresso in Lager. Ma ho poi capito che i loro ignoti autori, forse inconsciamente, non erano lontani da alcune importanti verità. In questo luogo, lavarsi tutti i giorni nell’acqua torbida del lavandino immondo è praticamente inutile ai fini della pulizia e della salute; è invece importantissimo come sintomo di residua vitalità, e necessario come strumento di sopravvivenza morale.
Devo confessarlo: dopo una sola settimana di prigionia, in me l’istinto della pulizia è sparito. Mi aggiro ciondolando per il lavatoio, ed ecco Steinlauf, il mio amico quasi cinquantenne, a torso nudo, che si strofina collo e spalle con scarso esito (non ha sapone) ma con estrema energia. Steinlauf mi vede e mi saluta, e senza ambagi mi domanda severamente perché non mi lavo. Perché dovrei lavarmi? Starei forse meglio di quanto sto? Piacerei di più a qualcuno? Vivrei un giorno, un’ora di più? Vivrei anzi di meno, perché lavarsi è un lavoro, uno spreco di energia e di calore. Non sa Steinlauf che dopo mezz’ora ai sacchi di carbone ogni differenza fra lui e me sarà scomparsa? Più ci penso, e più mi pare che lavarsi la faccia nelle nostre condizioni sia una faccenda insulsa, addirittura frivola: un’abitudine meccanica, o peggio, una lugubre ripetizione di un rito estinto. Morremo tutti, stiamo per morire: se mi avanzano dieci minuti fra la sveglia e il lavoro, voglio dedicarli ad altro, a chiudermi in me stesso, a tirare le somme, o magari a guardare il cielo e a pensare che lo vedo forse per l’ultima volta; o anche solo a lasciarmi vivere, a concedermi il lusso di un minuscolo ozio.
Ma Steinlauf mi dà sulla voce. Ha terminato di lavarsi, ora si sta asciugando con la giacca di tela che prima teneva arrotolata fra le ginocchia e che poi infilerà, e senza interrompere l’operazione mi somministra una lezione in piena regola.
Ho scordato ormai, e me ne duole, le sue parole diritte e chiare, le parole del già sergente Steinlauf dell’esercito austroungarico, croce di ferro della guerra ’14-18. Me ne duole, perché dovrò tradurre il suo italiano incerto e il suo discorso piano di buon soldato nel mio linguaggio di uomo incredulo. Ma questo ne era il senso, non dimenticato allora né poi: che appunto perché il Lager è una gran macchina per ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare; che anche in questo luogo si può sopravvivere, e perciò si deve voler sopravvivere, per raccontare, per portare testimonianza; e che per vivere è importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l’impalcatura, la forma della civiltà. Che siamo schiavi, privi di ogni diritto, esposti a ogni offesa, votati a morte quasi certa, ma che una facoltà ci è rimasta, e dobbiamo difenderla con ogni vigore perché è l’ultima: la facoltà di negare il nostro consenso. Dobbiamo quindi, certamente, lavarci la faccia senza sapone, nell’acqua sporca, e asciugarci nella giacca. Dobbiamo dare il nero alle scarpe, non perché così prescrive il regolamento, ma per dignità e per proprietà. Dobbiamo camminare diritti, senza strascicare gli zoccoli, non già in omaggio alla disciplina prussiana, ma per restare vivi, per non cominciare a morire.
Queste cose mi disse Steinlauf, uomo di volontà buona: strane cose al mio orecchio dissueto, intese e accettate solo in parte, e mitigate in una più facile, duttile e blanda dottrina, quella che da secoli si respira al di qua delle Alpi, e secondo la quale, fra l’altro, non c’è maggior vanità che sforzarsi di inghiottire interi i sistemi morali elaborati da altri, sotto altro cielo. No, la saggezza e la virtù di Steinlauf, buone certamente per lui, a me non bastano. Di fronte a questo complicato mondo infero, le mie idee sono confuse; sarà proprio necessario elaborare un sistema e praticarlo? O non sarà più salutare prendere coscienza di non avere sistema?

(1) Ruhe! = Silenzio!
(2) Brot-Broit-chleb-pain-lechemkenyér: “pane” in diverse lingue.
(3) La propreté, c’est la sante = La pulizia è salute (ma nella frase vi è un errore ortografico, come sottolineato dall’autore).
(4) Distico = strofa di due versi. L’aggettivo “ispirato” è chiaramente sarcastico.


La sala per lavarsi ad Auschwitz, oggi






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