venerdì 17 novembre 2017

127 Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Mr. Hyde - capitolo 1 (di Robert Louis Stevenson)



Chi sono il dottor Jekyll e il signor Hyde che sono accomunati nel titolo di questo famoso romanzo? E che cosa c’è di così strano nella loro vicenda? Il primo capitolo ci presenta in modo diretto soltanto il secondo dei due personaggi, un uomo violento e che mette inquietudine solo a vederlo, per qualcosa di deforme (ma indefinibile) che egli ha nell’aspetto e nel comportamento; l’altro, il dottor Jekyll, uomo di assoluta irreprensibilità nella Londra vittoriana, sembra avere qualcosa a che fare con il signor Hyde per qualche peccato di gioventù, che lo ha messo a rischio di essere ricattato. La realtà, però, è molto più complessa di così.

STORIA DI UNA PORTA
Il signor Utterson, di professione avvocato, era un uomo dall'aspetto burbero, mai illuminato da un sorriso; freddo, asciutto e impacciato nel parlare, restio ai sentimenti, magro, allampanato, trasandato e tetro; ma nonostante tutto con un che di amabile. Nelle riunioni con gli amici, quando il vino era di suo gradimento, nei suoi occhi appariva un barlume di profonda umanità, qualcosa che non riusciva mai a tradursi in parole; che si esprimeva non solo dopo il pranzo nei tratti silenziosi del volto, ma più spesso e più apertamente nelle azioni della vita. Era severo con se stesso: quando era solo beveva gin per castigare la sua predilezione per i vini di pregio, e, pur amando il teatro, non ne varcava la soglia da ormai venti anni. Con gli altri invece dimostrava una notevole tolleranza e talvolta si stupiva, quasi con invidia, di fronte al vitalismo che li spingeva a commettere dei crimini. Nei casi più gravi era disposto ad aiutare più che a condannare. «Io sto dalla parte di Caino», era solito dire con una punta di eccentricità; «lascio che mio fratello vada al diavolo come meglio preferisce». Avendo tale disposizione d'animo, gli capitava spesso di essere l'ultima conoscenza rispettabile e l'estrema influenza benefica nella vita di individui giunti al limite della degradazione. E a costoro, fin tanto che venivano nel suo studio, mai aveva mostrato il benché minimo mutamento nel suo modo di fare.
 Certo la cosa non era difficile per il signor Utterson, poiché egli era l'uomo più riservato che potesse esistere, e persino le sue amicizie sembravano basarsi su un'analoga tolleranza e bonomia. È caratteristica dell'uomo senza pretese accettare il suo cerchio di amici così come gli viene offerto dalle mani del caso, e così faceva l'avvocato. Aveva per amici i propri consanguinei o persone che conosceva da moltissimo tempo; i suoi affetti, come l'edera, crescevano col passare del tempo e non richiedevano qualità particolari nell'oggetto. Di questo tipo era il legame che lo univa al signor Richard Enfield, suo lontano parente e noto uomo di mondo. Erano in molti a chiedersi che cosa quei due trovassero l'uno nell'altro o quali argomenti potessero avere in comune. Chi li incontrasse durante le loro passeggiate domenicali raccontava che i due non si scambiavano parola, avevano lo sguardo assente e accoglievano con evidente sollievo la comparsa di un amico. Tuttavia i due uomini tenevano in gran conto queste passeggiate e le consideravano il momento più prezioso della settimana; e, pur di non spezzarne la continuità, non solo rinunciavano a occasioni di piacere ma resistevano persino al richiamo del lavoro.
Fu durante una di queste passeggiate errabonde che il caso li portò in una via secondaria di un popoloso quartiere di Londra. La strada, che durante la settimana era piena di fiorenti commerci, appariva piccola e tranquilla. Gli abitanti dovevano essere tutti agiati e decisi a fare ancora di più con spirito di emulazione. Dovevano investire l'eccedenza dei loro guadagni in lavori di abbellimento, poiché le facciate delle botteghe lungo la via avevano una certa aria invitante, simili a una fila di sorridenti commesse. Persino la domenica, quando le sue attrattive più manifeste erano celate e, in proporzione, vi passava poca gente, la via risplendeva in contrasto con gli squallidi dintorni come un fuoco nella foresta: con le imposte dipinte di fresco, gli ottoni ben lucidati, la nota di lindore e gaiezza che diffondeva, attraeva e seduceva in un attimo l'occhio del passante. Due porte prima di un angolo della via, sulla sinistra di chi andasse verso est, la fila di botteghe era interrotta dall'ingresso su un cortile, e proprio in quel punto un edificio dall'aspetto sinistro protendeva sulla strada il suo frontone. Era a due piani, non aveva finestre, solo una porta al piano inferiore e una cieca superficie di muro scolorito a quello superiore; sotto ogni aspetto l'edificio mostrava i segni di una prolungata, sordida trascuratezza. La porta, che non aveva né campanello né batacchio, era scrostata e piena di screpolature. I vagabondi si accoccolavano nella sua rientranza e accendevano i fiammiferi sui battenti; i bambini giocavano al mercato sui gradini; gli scolari avevano provato i loro coltellini sulle modanature, e per almeno una generazione nessuno era venuto a cacciar via questi visitatori occasionali o a ripararne gli sfregi. Il signor Enfield e l'avvocato camminavano sull'altro lato di quella via secondaria, ma quando furono all'altezza della porta il primo alzò il bastone e la indicò al compagno.
«Hai mai notato quella porta?», gli chiese; e alla sua risposta affermativa aggiunse: «nella mia mente quella porta è collegata a una storia molto strana».
«Davvero?», disse il signor Utterson con un leggero cambiamento di voce. «E di che cosa si tratta?».
 «Ecco, è successo così», rispose il signor Enfield. «Stavo tornando a casa da un qualche posto in capo al mondo. Erano circa le tre di un buio mattino d'inverno. La mia strada passava attraverso una parte della città in cui non c'era nulla da vedere all'infuori dei lampioni: una via dopo l'altra, e tutta la gente a dormire; una via dopo l'altra, tutte illuminate come per una processione e tutte vuote come una chiesa. Alla fin fine mi ritrovai in quello stato d'animo in cui si tende l'orecchio e si comincia a desiderare la presenza di un poliziotto. Improvvisamente vidi due figure: una era un uomo piuttosto piccolo che camminava pesantemente ma di buon passo in direzione est, l'altra era una bambina di otto o dieci anni che correva a più non posso giù per una via traversa. Ebbene, amico mio, fu inevitabile che i due si scontrassero all'angolo della via, e proprio lì accadde la cosa orribile: l'uomo calpestò tranquillamente il corpo della bambina e la lasciò urlante sul selciato. A sentirla raccontare non sembra nulla, ma a vederla era una scena orrenda. Quello non era un uomo, ma piuttosto un maledetto Juggernaut (1). Diedi un grido di allarme, mi gettai all'inseguimento, afferrai per il colletto quel tipo e lo riportai indietro là dove c'era già un gruppo di persone intorno alla bambina che ancora strillava. Quello sembrava del tutto indifferente e non oppose alcuna resistenza, ma mi gettò un'occhiata così minacciosa che mi fece venire i sudori come dopo una corsa. Le persone accorse erano i familiari della piccola, che a quanto risultò era stata spedita a chiamare un medico, e poco dopo sopraggiunse il medico stesso. Secondo il quale la bambina non aveva nulla di grave, era solo spaventata. E la storia avrebbe potuto finir lì. Ma ci fu una circostanza curiosa: avevo sviluppato un odio subitaneo nei confronti di quel tizio, e così pure i familiari della bambina, il che era più che naturale. Ma ciò che mi colpì fu l'atteggiamento del dottore. Era il solito medico dai modi spicci e bruschi, di età e colorito indefiniti, con un forte accento edimburghese, e impressionabile quanto un ciocco di legno. Ebbene, amico mio, aveva avuto la nostra stessa reazione: ogni volta che guardava il prigioniero, lo vedevo sbiancare in volto dalla voglia di fargli la pelle. Sapevo quello che aveva in mente, proprio come lui sapeva quello che avevo io; ma poiché ammazzarlo era fuori discussione, cercammo di fare quanto meglio possibile. Dicemmo a quell'uomo che avremmo creato un tale scandalo su quella storia da far maledire il suo nome in tutta Londra. Che, se avesse avuto degli amici o qualche credito, glieli avremmo fatti perdere, e nel frattempo, mentre ce lo lavoravamo per bene, cercavamo di tenere lontane da lui le donne che erano fuori di sé come arpie. Non ho mai visto facce così piene d'odio; e in mezzo a quel cerchio c'era il nostro uomo, con una sorta di ghigno gelido, spaventato anche lui, lo si vedeva bene, ma in grado di tener testa alla situazione quanto Satana in persona. "Se volete sfruttare questo incidente non posso oppormi", disse. "Qualunque gentiluomo desidera evitare le scenate. Ditemi la cifra". Be', gli scucimmo un centinaio di sterline per la famiglia della bambina. Lui chiaramente non ne voleva sapere, ma c'era qualcosa di minaccioso in tutti noi per cui, alla fine, accettò. A questo punto c'era da andare a prendere il denaro; e dove credi che ci portò se non alla porta di quell'edificio? Fece saltar fuori una chiave, entrò, e ritornò poco dopo con dieci sterline in oro e un assegno della Banca Coutts (2) per il resto della cifra, pagabile al portatore e firmato da un nome che non posso riferire, sebbene sia uno dei punti chiave della storia, un nome comunque molto noto e che compare spesso sui giornali. La cifra non era gran che, ma la firma valeva molto di più, ammesso che fosse autentica. Mi permisi di far notare che tutta la faccenda sembrava sospetta, e che nella vita reale un tizio non entra in una casa per la porta dello scantinato alle quattro del mattino e ne esce con un assegno di quasi cento sterline firmato da un'altra persona. Ma lui sogghignò tranquillamente e disse: "Rassicuratevi. Resterò con voi fino a quando aprono le banche, e incasserò io stesso l'assegno". Così ci incamminammo tutti quanti, il dottore, il padre della bambina, il nostro amico ed io, e passammo il resto della notte nel mio appartamento. Il giorno seguente, dopo aver fatto colazione, andammo tutti quanti alla banca. Consegnai io stesso l'assegno, dicendo che avevo ragione di ritenere fosse falsificato. Niente affatto. La firma era autentica».
«Ahi, ahi!», fece il signor Utterson.
«Vedo che tu la pensi come me», disse Enfield. «È una brutta storia. Quello era un individuo con cui nessuno vorrebbe trattare, un essere veramente detestabile; mentre l'uomo che ha firmato l'assegno è un modello di correttezza, ben conosciuto, e (quel che è peggio) uno dei tuoi amici, il quale fa, come si suol dire, del bene. Ricatto, suppongo: un uomo onesto costretto a pagare cifre esorbitanti per qualche scappatella di gioventù. Ecco perché chiamo quell'edificio con la porta la Casa del Ricatto. Sebbene anche questo, sai, non possa spiegare tutto», aggiunse; e con queste parole sprofondò in uno stato di meditazione.
Ne fu distolto dal signor Utterson che gli domandò improvvisamente: «E tu non sai se la persona che ha firmato l'assegno abiti qui?».
«Bel posto, non è vero?», rispose il signor Enfield. «No, abita in una piazza da qualche parte; ho avuto occasione di vedere il suo indirizzo».
«E non hai preso informazioni sulla... casa con la porta?», disse il signor Utterson.
«No, la discrezione me l'ha impedito», fu la risposta. «Non mi va di chiedere; sa troppo di giudizio universale. Fare una domanda è come mettere in moto una pietra. Te ne stai seduto tranquillo sulla cima di una collina, e la pietra comincia a rotolare mettendone in moto delle altre; e all'improvviso un qualche individuo innocuo (l'ultima persona al mondo cui avresti pensato) si prende un colpo in testa mentre sta lavorando nell'orto, e la famiglia è costretta a cambiar nome. No, signore, ne ho fatto una regola di vita: più una faccenda puzza, meno domande faccio».
«Ottima regola», disse l'avvocato.
«Però ho studiato il posto per conto mio», proseguì il signor Enfield. «Non sembra una vera casa. Di porte c'è solo quella, e nessuno vi entra o vi esce, fatta eccezione di tanto in tanto per quel signore. Al primo piano ci sono tre finestre che danno sul cortile, al piano terra nessuna; le finestre sono sempre chiuse, ma hanno i vetri puliti. C'è poi un comignolo che di solito fuma; perciò qualcuno deve pur abitarci. E tuttavia non è così certo, perché su quel cortile si affacciano tanti edifici che è difficile dire dove finisca l'uno e dove cominci l'altro».
I due camminarono per un po' in silenzio; poi: «Enfield», disse il signor Utterson, «quella tua regola è ottima».
«Sì, lo credo anch'io», rispose Enfield.
«Tuttavia», continuò l'avvocato, «c'è una cosa che vorrei chiederti: vorrei sapere il nome dell'uomo che ha calpestato la bambina».
«Be', non vedo che male possa fare dirtelo. Il nome di quel tipo è Hyde».
«Mmm...», disse il signor Utterson, «che tipo è?».
«Non è facile da descrivere. Nel suo aspetto c'è qualcosa di sgradevole, di detestabile addirittura. Non ho mai visto un uomo che mi riuscisse tanto odioso, eppure non ne so spiegare il motivo. Deve avere qualche deformità; si avverte qualcosa di deforme in lui, anche se non saprei localizzarlo. È un uomo dall'aspetto strano, eppure non riesco a trovare in lui niente fuori dell'ordinario. Nossignore, non ci capisco nulla, non sono in grado di descriverlo. E non è per mancanza di memoria, perché anche in questo momento ce l'ho davanti agli occhi».
Il signor Utterson riprese a camminare in silenzio, immerso nelle sue considerazioni. «Sei sicuro che abbia usato una chiave?», domandò infine.
«Mio caro amico...», cominciò Enfield, molto sorpreso.
«Sì, lo so», disse Utterson; «so che deve sembrare strano. Il fatto è che, se non ti chiedo il nome dell'altra persona, è perché lo conosco già. Vedi, Richard, la tua storia mi ha toccato da vicino. Se sei stato impreciso su qualche punto, faresti bene a correggerlo».
«Avresti potuto avvisarmi», rispose l'altro con una punta di sdegno. «Sono stato scrupolosamente preciso, come dici tu. Quel tizio aveva la chiave; non solo, ce l'ha ancora, perché gliel'ho vista usare meno di una settimana fa».
Il signor Utterson emise un profondo sospiro, ma non disse nulla; e il giovane riprese: «Ecco un'altra lezione che mi insegna a non parlare. Mi vergogno della mia lingua troppo lunga. Facciamo un patto: non ne parliamo più».
«Accetto di tutto cuore, Richard», disse l'avvocato. «Non ne parleremo più».

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(1) Juggernaut = Jagannâth, divinità indù la cui statua, portata in processione su un pesante carro, schiacciava a quanto pare vittime umane.
(2) Il nome di questa famosa banca implica che il firmatario dell’assegno è persona facoltosa.


Il signor Hyde calpesta la bambina: illustrazione di Charles Raymond Macauley per un’edizione del 1904 del romanzo


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