VOI CHE VIVERE SICURI
Il romanzo “Se questo è un uomo” venne pubblicato nel 1947
presso il piccolo editore De Silva, di Franco Antonicelli; con esso Primo Levi
voleva rendere testimonianza del periodo di prigionia da lui trascorso nel
campo di Monowitz, che faceva parte del complesso di Auschwitz. Ripubblicato da
Einaudi (che l’aveva inizialmente rifiutato) nel 1958, ottenne un enorme
successo, diventando una delle opere narrative più famose al mondo, tra quelle
che hanno raccontato l’Olocausto. Inizia con una breve poesia, in cui l’autore
esprime con pochi tratti la condizione disumana dei prigionieri nei campi di
concentramento, per poi invitare al ricordo di quei fatti e lanciare una
maledizione quasi biblica contro chi dimenticasse “che questo è stato”. Segue
una breve Prefazione dell’autore.
Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
Considerate se
questo è un uomo
Che lavora nel
fango
Che non conosce
pace
Che lotta per
mezzo pane
Che muore per un
sì o per un no.
Considerate se
questa è una donna,
Senza capelli e
senza nome
Senza più forza
di ricordare
Vuoti gli occhi e
freddo il grembo
Come una rana
d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia
la casa,
La malattia vi
impedisca,
I vostri nati
torcano il viso da voi.
PREFAZIONE
Per mia fortuna, sono stato
deportato ad Auschwitz solo nel 1944, e cioè dopo che il governo tedesco, data
la crescente scarsità di manodopera, aveva stabilito di allungare la vita media
dei prigionieri da eliminarsi, concedendo sensibili miglioramenti nel tenor di
vita e sospendendo temporaneamente le uccisioni ad arbitrio dei singoli.
Perciò questo mio libro, in fatto
di particolari atroci, non aggiunge nulla a quanto è ormai noto ai lettori di
tutto il mondo sull’inquietante argomento dei campi di distruzione. Esso non è
stato scritto allo scopo di formulare nuovi capi di accusa; potrà piuttosto
fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano. A
molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente,
che «ogni straniero è nemico». Per lo più questa convinzione giace in fondo
agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e
incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo
avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo,
allora, al termine della catena, sta il Lager. Esso è il prodotto di una
concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa coerenza: finché
la concezione sussiste, le conseguenze ci minacciano. La storia dei campi di
distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di
pericolo.
Mi rendo conto e chiedo venia dei
difetti strutturali del libro. Se non di fatto, come intenzione e come
concezione esso è nato già fin dai giorni di Lager. Il bisogno di raccontare
agli «altri», di fare gli «altri» partecipi, aveva assunto fra noi, prima della
liberazione e dopo, il carattere di un impulso immediato e violento, tanto da
rivaleggiare con gli altri bisogni elementari: il libro è stato scritto per
soddisfare a questo bisogno; in primo luogo quindi a scopo di liberazione interiore.
Di qui il suo carattere frammentario: i capitoli sono stati scritti non in
successione logica, ma per ordine di urgenza. Il lavoro di raccordo e di
fusione è stato svolto su piano ed è posteriore.
Mi pare superfluo aggiungere che
nessuno dei fatti è inventato.
Il campo di
concentramento di Auschwitz (Polonia) oggi
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