È
arrivato di nuovo l’inverno ad Auschwitz e i prigionieri continuano a morire. Ma
ecco accadere l’imprevedibile: Primo Levi viene scelto con altri due per il
Laboratorio, il che vuol dire stare al caldo tutto il giorno, mangiare meglio,
vivere in un posto pulito. In Laboratorio ci sono anche delle ragazze, ma con
quale disgusto guardano i detenuti, sporchi, magri, pieni di pulci e
puzzolenti! Le ragazze non parlano con «die drei Leute vom Labor», le tre Persone
del Laboratorio; parlano tra loro, di quanto sia passato presto l’ultimo anno.
DIE DREI LEUTE VOM LABOR
Quanti mesi sono passati dal
nostro ingresso in campo? Quanti dal giorno in cui sono stato dimesso dal
Ka-Be? E dal giorno dell’esame di chimica? E dalla selezione di ottobre?
Alberto ed io ci poniamo spesso
queste domande, e molte altre ancora. Eravamo novantasei quando siamo entrati,
noi, gli italiani del convoglio centosettantaquattromila; ventinove soltanto
fra noi hanno sopravvissuto fino all’ottobre, e di questi, otto sono andati in
selezione. Ora siamo ventuno, e l’inverno è appena incominciato. Quanti fra noi
giungeranno vivi al nuovo anno? Quanti alla primavera?
Da parecchie settimane ormai le
incursioni sono cessate; la pioggia di novembre si è mutata in neve, e la neve
ha ricoperto le rovine. I tedeschi e i polacchi vengono al lavoro cogli
stivaloni di gomma, i copriorecchi di pelo e le tute imbottite, i prigionieri
inglesi con i loro meravigliosi giubbetti di pelliccia. Nel nostro Lager non
hanno distribuito cappotti se non a qualche privilegiato; noi siamo un Kommando
specializzato, il quale, in teoria, non lavora che al coperto: perciò noi siamo
rimasti in tenuta estiva.
Noi siamo i chimici, e perciò
lavoriamo ai sacchi di fenilbeta. Abbiamo sgomberato il magazzino dopo le prime
incursioni, nel colmo dell’estate: la fenilbeta ci si incollava sotto gli abiti
alle membra sudate e ci rodeva come una lebbra; la pelle si staccava dai nostri
visi in grosse squame bruciate. Poi le incursioni si sono interrotte, e noi
abbiamo riportato i sacchi nel magazzino. Poi il magazzino è stato colpito, e
noi abbiamo ricoverato i sacchi nella cantina del Reparto Stirolo. Ora il
magazzino è stato riparato, e bisogna accatastarvi i sacchi ancora una volta.
L’odore acuto della fenilbeta impregna il nostro unico abito, e ci accompagna
giorno e notte come la nostra ombra. Finora, i vantaggi di essere nel Kommando
Chimico si sono limitati a questi: gli altri hanno ricevuto i cappotti e noi
no; gli altri portano sacchi di cinquanta chili di cemento, e noi sacchi di
sessanta chili di fenilbeta. Come pensare ancora all’esame di chimica e alle
illusioni di allora? Almeno quattro volte, durante l’estate, si è parlato del
laboratorio del Doktor Pannwitz nel Bau 939, ed è corsa la voce che sarebbero
stati scelti fra noi gli analisti per il reparto Polimerizzazione.
Adesso basta, adesso è finito. È l’ultimo atto:
l’inverno è incominciato, e con lui la nostra ultima battaglia. Non è più dato
dubitare che non sia l’ultima. In qualunque momento del giorno ci accada di prestare
ascolto alla voce dei nostri corpi, di interrogare le nostre membra, la
risposta è una: le forze non ci basteranno. Tutto intorno a noi parla di
disfacimento e di fine. Metà del Bau 939 è un ammasso di lamiere contorte e di
calcinacci; dalle condutture enormi dove prima ruggiva il vapore surriscaldato,
pendono ora fino al suolo deformi ghiaccioli azzurri grossi come pilastri. La
Buna è silenziosa adesso, e quando il vento è propizio, se si tende l’orecchio,
si sente un continuo sordo fremito sotterraneo, il quale è il fronte che si
avvicina. Sono arrivati in Lager trecento prigionieri del ghetto di Lodz, che i
tedeschi hanno trasferiti davanti all’avanzata dei russi: hanno portato fino a
noi la voce della lotta leggendaria nel ghetto di Varsavia, e ci hanno
raccontato di come, già un anno fa, i tedeschi hanno liquidato il campo di
Lublino: quattro mitragliatrici agli angoli e le baracche incendiate; il mondo
civile non lo saprà mai. A quando la nostra volta? Stamane il Kapo ha fatto
come al solito la divisione delle squadre. I dieci del Clormagnesio, al
Clormagnesio: e quelli partono, strascicando i piedi, il più lentamente
possibile, perché il Clormagnesio è un lavoro durissimo: si sta tutto il giorno
fino alle caviglie nell’acqua salmastra e gelata, che macera le scarpe, gli
abiti e la pelle. Il Kapo afferra un mattone e lo scaglia nel mucchio: quelli
si scansano goffamente ma non accelerano il passo. È questa quasi una consuetudine, avviene tutte le
mattine, e non sempre suppone nel Kapo un preciso proposito di nuocere.
I quattro del Scheisshaus, al
loro lavoro: e partono i quattro addetti alla costruzione della nuova latrina.
Bisogna infatti sapere che, da quando, coll’arrivo dei convogli di Lodz e di
Transilvania, noi abbiamo superato l’effettivo di cinquanta Häftlinge, il
misterioso burocrate tedesco che sovrintende a queste cose ci ha autorizzato
alla erezione di uno «Zweiplatziges Kommandoscheisshaus», vale a dire di un
cesso a due posti riservato al nostro Kommando. Noi non siamo insensibili a
questo segno di distinzione, che fa del nostro uno dei pochi Kommandos a cui
sia vanto l’appartenere: è però evidente che viene così a mancare il più
semplice dei pretesti per assentarsi dal lavoro e per intessere combinazioni
coi civili. - Noblesse oblige, - dice Henri, il quale ha altre corde al suo
arco.
I dodici dei mattoni. I cinque di
Meister Dahm. I due delle cisterne. Quanti assenti? Tre assenti. Homolka
entrato stamane in Ka-Be, il Fabbro morto ieri, François trasferito chissà dove
e chissà perché. Il conto torna; il Kapo registra ed è soddisfatto. Non
restiamo ormai che noi diciotto della fenilbeta, oltre ai prominenti del Kommando.
Ed ecco l’imprevedibile.
Il Kapo dice: - Il Doktor
Pannwitz ha comunicato all’Arbeitsdienst che tre Häftlinge sono stati scelti
per il Laboratorio. 169 509, Brackier; 175 633, Kandel; 174 517, Levi -. Per un
istante le orecchie mi ronzano e la Buna mi gira intorno. Siamo tre Levi nel
Kommando 98, ma Hundert Vierundsiebzig Fünf Hundert Siebzehn sono io, non c’è
dubbio possibile. Io sono uno dei tre eletti.
Il Kapo ci squadra con un riso
astioso. Un belga, un rumeno e un italiano: tre «Franzosen», insomma. Possibile
che dovessero proprio essere tre Franzosen gli eletti per il paradiso del
laboratorio?
Molti compagni si congratulano;
primo fra tutti Alberto, con genuina gioia, senza ombra d’invidia. Alberto non
trova nulla a ridire sulla fortuna che mi è toccata, e ne è anzi ben lieto, sia
per amicizia, sia perché ne trarrà lui pure dei vantaggi: infatti noi due siamo
ormai legati da uno strettissimo patto di alleanza, per cui ogni boccone
«organizzato» viene diviso in due parti rigorosamente uguali. Non ha motivo di
invidiarmi, poiché entrare in Laboratorio non rientrava né nelle sue speranze,
né pure nei suoi desideri. Il sangue delle sue vene è troppo libero perché
Alberto, il mio amico non domato, pensi di adagiarsi in un sistema; il suo
istinto lo porta altrove, verso altre soluzioni, verso l’imprevisto,
l’estemporaneo, il nuovo. A un buon impiego, Alberto preferisce senza esitare
gli incerti e le battaglie della «libera professione».
Ho in tasca un biglietto
dell’Arbeitsdienst, dove è scritto che lo Häftling 174 517, come operaio
specializzato, ha diritto a camicia e mutande nuove, e deve essere sbarbato
ogni mercoledì.
La Buna dilaniata giace sotto la
prima neve, silenziosa e rigida come uno smisurato cadavere; ogni giorno
abbaiano le sirene del Fliegeralarm; i russi sono a ottanta chilometri. La
centrale elettrica è ferma, le colonne del Metanolo non esistono più, tre dei
quattro gasometri dell’acetilene sono saltati. Nel nostro Lager affluiscono
ogni giorno alla rinfusa i prigionieri «recuperati» da tutti i campi della
Polonia orientale; i meno vanno al lavoro, i più proseguono senz’altro per
Birkenau e per il Camino. La razione è stata ancora ridotta. Il Ka-Be
rigurgita, gli E-Häftlinge hanno portato in campo la scarlattina, la difterite
e il tifo petecchiale.
Ma lo Häftling 174 517 è stato promosso
specialista, e ha diritto a camicia e mutande nuove e deve essere raso ogni
mercoledì. Nessuno può vantarsi di comprendere i tedeschi.
Siamo entrati in laboratorio
timidi, sospettosi e disorientati come tre bestie selvagge che si addentrino in
una grande città. Come è liscio e pulito il pavimento! Questo è un laboratorio
sorprendentemente simile a qualunque altro laboratorio. Tre lunghi banchi di lavoro
carichi di centinaia di oggetti familiari. La vetreria in un angolo a
sgocciolare, la bilancia analitica, una stufa Heraeus, un termostato Höppler.
L’odore mi fa trasalire come una frustata: il debole odore aromatico dei
laboratori di chimica organica. Per un attimo, evocata con violenza brutale e
subito svanita, la grande sala semibuia dell’università, il quarto anno, l’aria
mite del maggio in Italia.
Herr Stawinoga ci assegna i posti
di lavoro. Stawinoga è un tedesco-polacco ancor giovane, dal viso energico ma
insieme triste e stanco. È anche lui Doktor: non in chimica, bensì (ne pas
chercher à comprendre) in glottologia; tuttavia è lui il capo-laboratorio. Con
noi non parla volentieri, ma non sembra mal disposto. Ci chiama «Monsieur», il
che è ridicolo e sconcertante.
In laboratorio la temperatura è
meravigliosa: il termometro segna 24°. Noi pensiamo che ci possono anche
mettere a lavare la vetreria, o a scopare il pavimento, o a trasportare le
bombole di idrogeno, qualunque cosa pur di restare qui dentro, e il problema
dell’inverno per noi sarà risolto. E poi, a un secondo esame, anche il problema
della fame non dovrebbe essere difficile a risolversi. Vorranno proprio
perquisirci ogni giorno all’uscita? O quando anche così fosse, ogni volta che
domanderemo di andare alla latrina? Evidentemente no. E qui c’è sapone, c’è
benzina, c’è alcool. Mi cucirò una tasca segreta nell’interno della giacca,
farò una combinazione con l’inglese che lavora in officina e commercia in
benzina. Vedremo quanto severa sarà la sorveglianza: ma ormai ho un anno di
Lager, e so che se uno vuole rubare, e ci si dedica seriamente, non esiste
sorveglianza e non esistono perquisizioni che glielo possano impedire.
A quanto pare dunque, la sorte,
battendo strade insospettate, ha fatto sì che noi tre, oggetto di invidia per i
diecimila condannati, non avremo quest’inverno né freddo né fame. Questo vuol
dire forti probabilità di non ammalarsi gravemente, di salvarsi dai
congelamenti, di superare le selezioni. In queste condizioni, persone meno
esperte di noi delle cose del Lager potrebbero anche essere tentate dalla
speranza di sopravvivere e dal pensiero della libertà. Noi no, noi sappiamo
come vanno queste faccende; tutto questo è un dono del destino, che come tale
va goduto il più intensamente possibile, e subito: ma del domani non v’è
certezza. Al primo vetro che romperò, al primo errore di misura, alla prima
disattenzione, ritornerò a consumarmi nella neve e nel vento, fino a che sarò
anch’io pronto per il Camino. E inoltre, chi può sapere che cosa accadrà quando
i russi verranno?
Perché i russi verranno. Il suolo
trema notte e giorno sotto i nostri piedi; nel vuoto silenzio della Buna il
fragore sommesso e sordo delle artiglierie risuona ormai ininterrotto. Si respira
un’aria tesa, un’aria di risoluzione. I polacchi non lavorano più, i francesi
camminano di nuovo a testa alta. Gli inglesi ci strizzano l’occhio, e ci
salutano di nascosto con la «V» dell’indice e del medio; e non sempre di
nascosto.
Ma i tedeschi sono sordi e
ciechi, chiusi in una corazza di ostinazione e di deliberata sconoscenza.
Ancora una volta hanno fissato la data dell’inizio della produzione di gomma
sintetica: sarà per il 1° febbraio 1945. Fabbricano rifugi e trincee, riparano
i danni, costruiscono; combattono, comandano, organizzano e uccidono. Che altro
potrebbero fare? Sono tedeschi: questo loro agire non è meditato e deliberato,
ma segue dalla loro natura e dal destino che si sono scelti. Non potrebbero
fare altrimenti: se si ferisce il corpo di un agonizzante, la ferita incomincia
tuttavia a cicatrizzare, anche se l’intero corpo morrà fra un giorno.
Adesso, ogni mattina, alla
divisione delle squadre, il Kapo chiama prima di tutti gli altri noi tre del
Laboratorio, «die drei Leute vom Labor». In campo, alla sera e al mattino,
nulla mi distingue dal gregge, ma di giorno, al lavoro, io sto al coperto e al
caldo, e nessuno mi picchia; rubo e vendo sapone e benzina, senza serio
rischio, e forse avrò un buono per le scarpe di cuoio. Inoltre, si può chiamare
lavoro questo mio? Lavorare è spingere vagoni, portare travi, spaccare pietre,
spalare terra, stringere con le mani nude il ribrezzo del ferro gelato. Io
invece sto seduto tutto il giorno, ho un quaderno e una matita, e mi hanno
perfino dato un libro per rinfrescarmi la memoria sui metodi analitici. Ho un
cassetto dove posso riporre berretto e guanti, e quando voglio uscire basta che
avvisi Herr Stawinoga, il quale non dice mai di no e se ritardo non fa domande;
ha l’aria di soffrire nella sua carne per la rovina che lo circonda.
I compagni del Kommando mi
invidiano, e hanno ragione; non dovrei forse dirmi contento? Ma non appena, al
mattino, io mi sottraggo alla rabbia del vento e varco la soglia del
laboratorio, ecco al mio fianco la compagna di tutti i momenti di tregua, del
Ka-Be e delle domeniche di riposo: la pena del ricordarsi, il vecchio feroce
struggimento di sentirsi uomo, che mi assalta come un cane all’istante in cui
la coscienza esce dal buio. Allora prendo la matita e il quaderno, e scrivo
quello che non saprei dire a nessuno.
Poi ci sono le donne. Da quanti
mesi non vedevo una donna? Non di rado si incontravano in Buna le operaie
ucraine e polacche in pantaloni e giubba di cuoio, massicce e violente come i
loro uomini. Erano sudate e scarmigliate d’estate, imbottite di abiti spessi
d’inverno; lavoravano di pala e di piccone, e non si sentivano accanto come
donne.
Qui è diverso. Di fronte alle
ragazze del laboratorio, noi tre ci sentiamo sprofondare di vergogna e di imbarazzo.
Noi sappiamo qual è il nostro aspetto: ci vediamo l’un l’altro, e talora ci
accade di specchiarci in un vetro terso. Siamo ridicoli e ripugnanti. Il nostro
cranio è calvo il lunedì, e coperto di una corta muffa brunastra il sabato.
Abbiamo il viso gonfio e giallo, segnato in permanenza dai tagli del barbiere
frettoloso, e spesso da lividure e piaghe torpide; abbiamo il collo lungo e
nodoso come polli spennati. I nostri abiti sono incredibilmente sudici,
macchiati di fango, sangue e untume; le brache di Kandel gli arrivano a metà
polpacci, rivelando le caviglie ossute e pelose; la mia giacca mi spiove dalle
spalle come da un attaccapanni di legno. Siamo pieni di pulci, e spesso ci
grattiamo spudoratamente; siamo costretti a domandare di andare alla latrina
con umiliante frequenza. I nostri zoccoli di legno sono insopportabilmente
rumorosi, e incrostati di strati alterni di fango e del grasso regolamentare.
E poi, al nostro odore noi siamo
ormai avvezzi, ma le ragazze no, e non perdono occasione per manifestarcelo.
Non è l’odore generico di mal lavato, ma l’odore di Häftling, scialbo e
dolciastro, che ci ha accolti al nostro arrivo in Lager ed esala tenace dai
dormitori, dalle cucine, dai lavatoi e dai cessi del Lager. Lo si acquista
subito e non lo si perde più: «così giovane e già puzzi!», così si usa accogliere
fra noi i nuovi arrivati.
A noi queste ragazze sembrano
creature ultraterrene. Sono tre giovani tedesche, più Fräulein Liczba, polacca,
che è la magazziniera, e Frau Mayer che è la segretaria. Hanno la pelle liscia
e rosea, begli abiti colorati, puliti e caldi, i capelli biondi, lunghi e ben
ravviati; parlano con molta grazia e compostezza, e invece di tenere il
laboratorio ordinato e pulito, come dovrebbero, fumano negli angoli, mangiano
pubblicamente tartine di pane e marmellata, si limano le unghie, rompono molta
vetreria e poi cercano di darne a noi la colpa; quando scopano ci scopano i
piedi. Con noi non parlano, e arricciano il naso quando ci vedono trascinarci
per il laboratorio, squallidi e sudici, disadatti e malfermi sugli zoccoli. Una
volta ho chiesto una informazione a Fräulein Liczba, e lei non mi ha risposto,
ma si è volta a Stawinoga con viso infastidito e gli ha parlato rapidamente.
Non ho inteso la frase, ma «Stinkjude» l’ho percepito chiaramente, e mi si sono
strette le vene. Stawinoga mi ha detto che, per ogni questione di lavoro, ci
dobbiamo rivolgere a lui direttamente.
Queste ragazze cantano, come
cantano tutte le ragazze di tutti i laboratori del mondo, e questo ci rende
profondamente infelici. Discorrono fra loro: parlano del tesseramento, dei loro
fidanzati, delle loro case, delle feste prossime...
- Domenica vai a casa? Io no: è
così scomodo viaggiare!
- Io andrò a Natale. Due
settimane soltanto, e poi sarà ancora Natale: non sembra vero, quest’anno è
passato così presto!
... Quest’anno è passato presto.
L’anno scorso a quest’ora io ero un uomo libero: fuori legge ma libero, avevo
un nome e una famiglia, possedevo una mente avida e inquieta e un corpo agile e
sano. Pensavo a molte lontanissime cose: al mio lavoro, alla fine della guerra,
al bene e al male, alla natura delle cose e alle leggi che governano l’agire
umano; e inoltre alle montagne, a cantare, all’amore, alla musica, alla poesia.
Avevo una enorme, radicata, sciocca fiducia nella benevolenza del destino, e
uccidere e morire mi parevano cose estranee e letterarie. I miei giorni erano
lieti e tristi, ma tutti li rimpiangevo, tutti erano densi e positivi;
l’avvenire mi stava davanti come una grande ricchezza. Della mia vita di allora
non mi resta oggi che quanto basta per soffrire la fame e il freddo; non sono
più abbastanza vivo per sapermi sopprimere.
Se parlassi meglio tedesco,
potrei provare a spiegare tutto questo a Frau Mayer; ma certo non capirebbe, o
se fosse così intelligente e così buona da capire, non potrebbe sostenere la
mia vicinanza, e mi fuggirebbe, come si fugge il contatto con un malato
incurabile o con un condannato a morte. O forse mi regalerebbe un buono per
mezzo litro di zuppa civile.
Quest’anno è passato presto.
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.