Nel sesto capitolo del suo romanzo Primo Levi ha descritto
una mattina di lavoro nel campo di concentramento: la fatica, gli stratagemmi
con cui tentare di sottrarsi al lavoro o di renderlo meno pesante, l’attesa
della zuppa a mezzogiorno, con il breve ma intendo momento di riposo che ne
consegue.
IL LAVORO
Prima di Resnyk, con me dormiva
un polacco di cui tutti ignoravano il nome; era mite e silenzioso, aveva due
vecchie piaghe alle tibie e di notte emanava un odore squallido di malattia;
era anche debole di vescica, e perciò si svegliava e mi svegliava otto o dieci
volte per notte.
Una sera mi ha lasciato i guanti
in consegna ed è entrato in ospedale. Io ho sperato per mezz’ora che il furiere
dimenticasse che ero rimasto solo occupante della mia cuccetta, ma, quando già
era suonato il silenzio, la cuccetta ha tremato e un tipo lungo e rosso, con il
numero dei francesi di Drancy (1), si è arrampicato accanto a me.
Avere un compagno di letto di
statura alta è una sciagura, vuol dire perdere ore di sonno; e a me toccano
proprio sempre compagni alti, perché io sono piccolo e due alti insieme non
possono dormire. Ma invece si è visto subito che Resnyk, malgrado ciò, non era
un cattivo compagno. Parlava poco e cortesemente, era pulito, non russava, non
si alzava che due o tre volte per notte e sempre con molta delicatezza. Al
mattino si è offerto di fare lui il letto (questa è una operazione complicata e
penosa, e inoltre comporta una notevole responsabilità perché quelli che
rifanno male il letto, gli «schlechte Bettenbauer», vengono diligentemente
puniti), e lo ha fatto rapidamente e bene; in modo che ho provato un certo
fugace piacere nel vedere, più tardi in piazza dell’Appello, che è stato
aggregato al mio Kommando.
Nella marcia verso il lavoro,
vacillanti nei grossi zoccoli sulla neve gelata, abbiamo scambiato qualche
parola, e ho saputo che Resnyk è polacco; ha vissuto vent’anni a Parigi, ma
parla un francese incredibile. Ha trent’anni, ma, come a tutti noi, gliene
potresti dare da diciassette a cinquanta. Mi ha raccontato la sua storia, e
oggi l’ho dimenticata, ma era certo una storia dolorosa, crudele e commovente;
ché tali sono tutte le nostre storie, centinaia di migliaia di storie, tutte
diverse e tutte piene di una tragica sorprendente necessità. Ce le raccontiamo
a vicenda a sera, e sono avvenute in Norvegia, in Italia, in Algeria, in
Ucraina, e sono semplici e incomprensibili come le storie della Bibbia. Ma non
sono anch’esse storie di una nuova Bibbia?
Quando siamo arrivati al
cantiere, ci hanno condotti alla Eisenröhreplatz, che è la spianata dove si
scaricano i tubi di ferro, e poi hanno cominciato ad avvenire le solite cose.
Il Kapo ha rifatto l’appello, ha preso brevemente atto del nuovo acquisto, si è
accordato col Meister civile sul lavoro di oggi. Poi ci ha affidati al
Vorarbeiter (2) e se ne è andato a dormire nella capanna degli attrezzi, vicino
alla stufa; questo non è un Kapo che dia noia, perché non è ebreo e non ha
paura di perdere il posto. Il Vorarbeiter ha distribuito le leve di ferro a noi
e le binde (3) ai suoi amici; è avvenuta la solita piccola lotta per
conquistare le leve più leggere, e oggi a me è andata male, la mia è quella storta,
che pesa forse quindici chili; so che, se anche la dovessi adoperare a vuoto,
dopo mezz’ora sarò morto di fatica.
Poi ce ne siamo andati, ciascuno
con la sua leva, zoppicando nella neve in disgelo. A ogni passo, un po’ di neve
e di fango aderiscono alle nostre suole di legno, finché si cammina instabili
su due pesanti ammassi informi di cui non ci si riesce a liberare; a un tratto
uno si stacca, e allora è come se una gamba fosse un palmo più corta
dell’altra.
Oggi bisogna scaricare dal vagone
un enorme cilindro di ghisa: credo che sia un tubo di sintesi, peserà parecchie
tonnellate. Per noi è meglio così, perché notoriamente si fatica di meno coi
grandi carichi che coi piccoli; infatti il lavoro è più suddiviso e ci vengono
concessi attrezzi adeguati; però siamo in pericolo, non bisogna mai distrarsi,
basta una svista di un attimo e si può essere travolti.
Meister Nogalla in persona, il
capomastro polacco, rigido serio e taciturno, ha sorvegliato l’operazione di
scarico. Ora il cilindro giace al suolo e Meister Nogalla dice: - Bohlen holen.
A noi si svuota il cuore. Vuol
dire «portare traversine» per costruire nel fango molle la via su cui il
cilindro verrà sospinto colle leve fin dentro la fabbrica. Ma le traversine
sono incastrate nel terreno, e pesano ottanta chili; sono all’incirca al limite
delle nostre forze. I più robusti di noi possono, lavorando in coppia, portare
traversine per qualche ora; per me è una tortura, il carico mi storpia l’osso
della spalla, dopo il primo viaggio sono sordo e quasi cieco per lo sforzo, e
commetterei qualunque bassezza per sottrarmi al secondo.
Proverò a mettermi in coppia con
Resnyk, che pare un buon lavoratore, e inoltre, essendo di alta statura, verrà
a sopportare la maggior parte del peso. So che è nell’ordine delle cose che
Resnyk mi rifiuti con disprezzo, e si metta in coppia con un altro individuo
robusto; e allora io chiederò di andare alla latrina, e ci starò il più a lungo
possibile, e poi cercherò di nascondermi con la certezza di essere
immediatamente rintracciato, deriso e percosso; ma tutto è meglio di questo
lavoro.
Invece no: Resnyk accetta, non
solo, ma solleva da solo la traversina e me l’appoggia sulla spalla destra con
precauzione; poi alza l’altra estremità, vi pone sotto la spalla sinistra e
partiamo.
La traversina è incrostata di
neve e di fango, a ogni passo mi batte contro l’orecchio e la neve mi scivola
nel collo. Dopo una cinquantina di passi sono al limite di quanto si suole
chiamare la normale sopportazione: le ginocchia si piegano, la spalla duole
come stretta in una morsa, l’equilibrio è in pericolo. A ogni passo sento le
scarpe succhiate dal fango avido, da questo fango polacco onnipresente il cui
orrore monotono riempie le nostre giornate.
Mi mordo profondamente le labbra:
a noi è noto che il procurarsi un piccolo dolore estraneo serve come stimolante
per mobilitare le estreme riserve di energia. Anche i Kapos lo sanno: alcuni ci
percuotono per pura bestialità e violenza, ma ve ne sono altri che ci
percuotono quando siamo sotto il carico, quasi amorevolmente, accompagnando le
percosse con esortazioni e incoraggiamenti, come fanno i carrettieri coi
cavalli volenterosi.
Arrivati al cilindro, scarichiamo
a terra la traversina, e io resto impalato, cogli occhi vuoti, la bocca aperta
e le braccia penzoloni, immerso nella estasi effimera e negativa della cessazione
del dolore. In un crepuscolo di esaurimento, attendo lo spintone che mi
costringerà a riprendere il lavoro, e cerco di profittare di ogni secondo
dell’attesa per ricuperare qualche energia.
Ma lo spintone non viene; Resnyk
mi tocca il gomito, il più lentamente possibile ritorniamo alle traversine. Là
si aggirano gli altri, a coppie, cercando tutti di indugiare quanto più possono
prima di sottoporsi al carico.
- Allons, petit, attrape (4) -.
Questa traversina è asciutta e un po’ più leggera, ma alla fine del secondo
viaggio mi presento al Vorarbeiter e chiedo di andare alla latrina.
Noi abbiamo il vantaggio che la
nostra latrina è piuttosto lontana; questo ci autorizza, una volta al giorno, a
una assenza un po’ più lunga che di norma, e inoltre, poiché è proibito
recarvisi da soli, ne è seguito che Wachsmann, il più debole e maldestro del
Kommando, è stato investito della carica di Scheissbegleiter, «accompagnatore
alle latrine»; Wachsmann, per virtù di tale nomina, è responsabile di un nostro
ipotetico (risibile ipotesi!) tentativo di fuga, e, più realisticamente, di
ogni nostro ritardo.
Poiché la mia domanda è stata
accettata, me ne parto nel fango, nella neve grigia e tra i rottami metallici,
scortato dal piccolo Wachsmann. Con questo non riesco a intendermi, perché non
abbiamo alcuna lingua in comune; ma i suoi compagni mi hanno detto che è
rabbino, è anzi un Melamed (5), un dotto della Thorà (6), e inoltre, al suo
paese, in Galizia, aveva fama di guaritore e di taumaturgo. Né sono lontano dal
crederlo, pensando come, così esile e fragile e mite, riesca da due anni a
lavorare senza ammalarsi e senza morire, acceso invece di una stupefacente
vitalità di sguardo e di parola, per cui passa lunghe sere a discutere di
questioni talmudiche (7), incomprensibilmente, in yiddisch e in ebraico, con Mendi
che è rabbino modernista.
La latrina è un’oasi di pace. È una latrina
provvisoria, che i tedeschi non hanno ancora provveduto delle consuete tramezze
in legno che separano i vari scompartimenti: «Nur für Engländer», « Nur für
Polen», «Nur für Ukrainische Frauen» e così via, e, un po’ in disparte, «Nur
für Häftlinge» (8). All’interno, spalla a spalla, siedono quattro Häftlinge
famelici; un vecchio barbuto operaio russo con la fascia azzurra OST (9) sul
braccio sinistro; un ragazzo polacco, con una grande P bianca sulla schiena e
sul petto; un prigioniero militare inglese, dal viso splendidamente rasato e
roseo, con la divisa kaki nitida, stirata e pulita, a parte il grosso marchio
KG (Kriegsgefangener) sul dorso. Un quinto Häftling sta sulla porta, e ad ogni
civile che entra sfilandosi la cintola, chiede paziente e monotono: - Etes-vous
français? (10)
Quando ritorno al lavoro, si
vedono passare gli autocarri del rancio, il che vuol dire che sono le dieci, e
questa è già un’ora rispettabile, tale che la pausa di mezzogiorno già si
profila nella nebbia del futuro remoto e noi possiamo cominciare ad attingere
energia dall’attesa.
Faccio con Resnyk ancora due o
tre viaggi, cercando con ogni cura, anche spingendoci a cataste lontane, di
trovare traversine più leggere, ma ormai tutte le migliori sono già state
trasportate, e non restano che le altre, atroci, dagli spigoli vivi, pesanti di
fango e ghiaccio, con inchiodate le piastre metalliche per adattarvi le rotaie.
Quando viene Franz a chiamare
Wachsmann perché vada con lui a ritirare il rancio, vuol dire che sono le
undici, e il mattino è quasi passato, e al pomeriggio nessuno pensa. Poi c’è il
ritorno della corvée, alle undici e mezzo, e l’interrogatorio stereotipo,
quanta zuppa oggi, e di che qualità, e se ci è toccata dal principio o dal
fondo del mastello; io mi sforzo di non farle, queste domande, ma non posso
impedirmi di tendere avidamente l’orecchio alle risposte, e il naso al fumo che
viene col vento dalla cucina.
E finalmente, come una meteora
celeste, sovrumana e impersonale come un segno divino, la sirena di mezzogiorno
esplode a esaudire le nostre stanchezze e le nostre fami anonime e concordi. E
di nuovo accadono le cose solite: tutti accorriamo alla baracca, e ci mettiamo
in fila colle gamelle tese, e tutti abbiamo una fretta animalesca di
perfonderci i visceri (11) con l’intruglio caldo, ma nessuno vuol essere il
primo, perché al primo tocca la razione più liquida. Come al solito, il Kapo ci
irride e ci insulta per la nostra voracità, e si guarda bene dal rimescolare la
marmitta, perché il fondo spetta notoriamente a lui. Poi viene la beatitudine
(positiva questa, e viscerale) della distensione e del calore nel ventre e
nella capanna intorno alla stufa rombante. I fumatori, con gesti avari e pii,
si arrotolano una magra sigaretta, e gli abiti di tutti, madidi di fango e di
neve, fumano densi alla vampa della stufa, con odore di canile e di gregge.
Una tacita convenzione vuole che
nessuno parli: in un minuto tutti dormono, serrati gomito a gomito, cascando
improvvisi in avanti e riprendendosi con un irrigidirsi del dorso. Di dietro
alle palpebre appena chiuse, erompono i sogni con violenza, e anche questi sono
i soliti sogni. Di essere a casa nostra, in un meraviglioso bagno caldo. Di
essere a casa nostra seduti a tavola. Di essere a casa e raccontare questo
nostro lavorare senza speranza, questo nostro aver fame sempre, questo nostro
dormire di schiavi.
Poi, in seno ai vapori delle
digestioni torpide, un nucleo doloroso si condensa, e ci punge, e cresce fino a
varcare le soglie della coscienza, e ci toglie la gioia del sonno. «Es wird
bald ein Uhr sein»: è quasi la una. Come un cancro rapido e vorace, fa morire
il nostro sonno e ci stringe di angoscia preventiva: tendiamo l’orecchio al
vento che fischia fuori e al leggero fruscio della neve contro il vetro, «es
wird schnell ein Uhr sein». Mentre ognuno si aggrappa al sonno perché non ci
abbandoni, tutti i sensi sono tesi nel raccapriccio del segnale che sta per
venire, che è fuori della porta, che è qui...
Eccolo. Un tonfo al vetro,
Meister Nogalla ha lanciato contro la finestrella una palla di neve, ed ora sta
rigido in piedi fuori, e tiene l’orologio col quadrante rivolto verso di noi.
Il Kapo si alza in piedi, si stira, e dice, sommesso come chi non dubita di
essere obbedito: - Alles heraus, - tutti fuori.
Oh poter piangere! Oh poter
affrontare il vento come un tempo facevamo, da pari a pari, e non come qui,
come vermi vuoti di anima!
Siamo fuori, e ciascuno riprende
la sua leva. Resnyk insacca la testa fra le spalle, si calca il berretto sugli
orecchi, e leva il viso al cielo basso e grigio da cui turbina la neve
inesorabile: - Si j’avey une chien, je ne le chasse pas dehors. (12)
(1) I francesi di Drancy sono i
prigionieri provenienti dal campo di concentramento di Drancy, messo in piedi
in Francia dai nazisti durante l’occupazione.
(2) Vorarbeiter = caposquadra.
(3) Binde = le macchine per
sollevare dei carichi.
(4) Allons, petit, attrape =
Andiamo, piccolo, prendi.
(5) Melamed = maestro,
insegnante.
(6) Thorà = scritto anche Torah,
è un termine dai numerosi significati, che, semplificando, si può spiegare come
l’insieme degli insegnamenti religiosi del popolo ebraico.
(7) Questioni talmudiche =
problemi relativi all’interpretazione del Talmud, uno dei testi sacri dell’ebraismo.
(8) Nur für = solo per (inglesi,
polacchi, donne ucraine, detenuti).
(9) OST = Est. E poi P = Polacco,
Kriegsgefangener = prigioniero di guerra.
(10) Etes-vous français? = Sei
francese?
(11) Perfonderci i viscere =
farci entrare nelle viscere, ingurgitare.
(12) Si j’avey une chien, je ne le
chasse pas dehors = Se avessi un cane, non lo caccerei fuori (intendendo, con
un tempo simile).
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