Nel quattordicesimo capitolo Primo Levi racconta di un
giorno di lavoro sotto la pioggia e di un ungherese, Kraus, da poco in Lager e
quindi inesperto delle condizioni a cui i prigionieri sono costretti: “non
vivrà a lungo qui dentro”, pensa l’autore e gli racconta di averlo sognato in
una situazione felice, completamente diversa dalla realtà in cui i due si
trovano, fino a provocare in lui una commozione enorme.
KRAUS
Quando piove si vorrebbe poter
piangere. È
novembre, piove già da dieci giorni, e la terra è come il fondo di una palude.
Ogni cosa di legno ha odore di funghi.
Se potessi fare dieci passi a
sinistra, c’è la tettoia, sarei al riparo; mi basterebbe anche un sacco per
coprirmi le spalle, o solamente la speranza di un fuoco dove asciugarmi; o
magari un cencio asciutto da mettermi fra la camicia e la schiena. Ci penso,
fra un colpo di pala e l’altro, e credo proprio che avere un cencio asciutto
sarebbe felicità positiva.
Ormai più bagnati non si può
diventare; solo bisogna cercare di muoversi il meno possibile, e soprattutto di
non fare movimenti nuovi, perché non accada che qualche altra porzione di pelle
venga senza necessità a contatto con gli abiti zuppi e gelidi.
È fortuna che oggi non tira vento. Strano, in qualche
modo si ha sempre l’impressione di essere fortunati, che una qualche
circostanza, magari infinitesima, ci trattenga sull’orlo della disperazione e
ci conceda di vivere. Piove, ma non tira vento. Oppure, piove e tira vento: ma
sai che stasera tocca a te il supplemento di zuppa, e allora anche oggi trovi
la forza di tirar sera. O ancora, pioggia, vento, e la fame consueta, e allora
pensi che se proprio dovessi, se proprio non ti sentissi più altro nel cuore
che sofferenza e noia, come a volte succede, che pare veramente di giacere sul
fondo; ebbene, anche allora noi pensiamo che se vogliamo, in qualunque momento,
possiamo pur sempre andare a toccare il reticolato elettrico, o buttarci sotto
i treni in manovra, e allora finirebbe di piovere.
Da stamattina stiamo confitti
nella melma, a gambe larghe, senza mai muovere i piedi dalle due buche che si
sono scavati nel terreno vischioso; oscillando sulle anche a ogni colpo di
pala. Io sono a metà dello scavo, Kraus e Clausner sono sul fondo, Gounan sopra
di me, a livello del suolo. Solo Gounan può guardarsi intorno, e a monosillabi
avvisa ogni tanto Kraus dell’opportunità di accelerare il ritmo, o
eventualmente di riposarsi, a seconda di chi passa per la strada. Clausner
piccona, Kraus alza la terra a me palata per palata, e io a mano a mano la alzo
a Gounan che la ammucchia a lato. Altri fanno la spola con le carriole e
portano la terra chissà dove, non ci interessa, oggi il nostro mondo è questa
buca di fango.
Kraus ha sbagliato un colpo, un
pacchetto di mota vola e mi si spiaccica sulle ginocchia. Non è la prima volta
che succede, senza molta fiducia lo ammonisco di fare attenzione: è ungherese,
capisce assai male il tedesco, e non sa una parola di francese. È lungo lungo,
ha gli occhiali e una curiosa faccia piccola e storta; quando ride sembra un
bambino, e ride spesso. Lavora troppo, e troppo vigorosamente: non ha ancora
imparato la nostra arte sotterranea di fare economia di tutto, di fiato, di
movimenti, perfino di pensiero. Non sa ancora che è meglio farsi picchiare,
perché di botte in genere non si muore, ma di fatica sì, e malamente, e quando
uno se ne accorge è già troppo tardi. Pensa ancora... oh no, povero Kraus, non
è ragionamento il suo, è solo la sua sciocca onestà di piccolo impiegato, se la
è portata fin qui dentro, e ora gli pare che sia come fuori, dove lavorare è
onesto e logico, e inoltre conveniente, perché, a quanto tutti dicono, quanto
più uno lavora, tanto più guadagna e mangia.
- Regardez-moi ça!... Pas si
vite, idiot! - impreca Gounan dall’alto; poi si ricorda di tradurre in tedesco:
Langsam, du blöder Einer, langsam, verstanden? -; Kraus può anche ammazzarsi di
fatica, se crede, ma non oggi, che lavoriamo in catena e il ritmo del nostro
lavoro è condizionato dal suo.
Ecco, questa è la sirena del
Carburo, adesso i prigionieri inglesi se ne vanno, sono le quattro e mezzo. Poi
passeranno le ragazze ucraine, e allora saranno le cinque, potremo raddrizzare
la schiena, e ormai solo la marcia di ritorno, l’appello e il controllo dei
pidocchi ci divideranno dal riposo.
È l’adunata, « Antreten» da tutte
le parti; da tutte le parti strisciano fuori i fantocci di fango, stirano le
membra aggranchite, riportano gli attrezzi nelle baracche. Noi estraiamo i
piedi dal fosso, cautamente per non lasciarvi succhiati gli zoccoli e ce ne
andiamo, ciondolanti e grondanti, a inquadrarci per la marcia di rientro. «Zu
dreien», per tre. Ho cercato di mettermi vicino ad Alberto, oggi abbiamo
lavorato separati, abbiamo da chiederci a vicenda come è andata: ma qualcuno mi
ha dato una manata sullo stomaco, sono finito dietro, guarda, proprio vicino a
Kraus.
Ora partiamo. Il Kapo scandisce
il passo con voce dura: - Links, links, links -; dapprima si ha male ai piedi,
poi a poco a poco ci si riscalda e i nervi si distendono. Anche oggi, anche
questo oggi che stamattina pareva invincibile ed eterno, l’abbiamo perforato
attraverso tutti i suoi minuti; adesso giace conchiuso ed è subito dimenticato,
già non è più un giorno, non ha lasciato traccia nella memoria di nessuno. Lo
sappiamo, che domani sarà come oggi: forse pioverà un po’ di più o un po’ di
meno, o forse invece di scavar terra andremo al Carburo a scaricar mattoni. O
domani può anche finire la guerra, o noi essere tutti uccisi, o trasferiti in
un altro campo, o capitare qualcuno di quei grandi rinnovamenti che, da che
Lager è Lager, vengono infaticabilmente pronosticati imminenti e sicuri. Ma chi
mai potrebbe seriamente pensare a domani?
La memoria è uno strumento
curioso: finché sono stato in campo, mi hanno danzato per il capo due versi che
ha scritto un mio amico molto tempo fa:
... infin che un giorno
senso non avrà più dire: domani.
Qui è così. Sapete come si dice
«mai» nel gergo del campo? «Morgen früh», domani mattina.
Adesso è l’ora di «links, links,
links und links», l’ora in cui non bisogna sbagliare passo. Kraus è maldestro,
si è già preso un calcio dal Kapo perché non sa camminare allineato: ed ecco,
incomincia a gesticolare e a masticare un tedesco miserevole, odi odi, mi vuole
chiedere scusa della palata di fango, non ha ancora capito dove siamo, bisogna
proprio dire che gli ungheresi sono gente singolare.
Andare al passo e fare un
discorso complicato in tedesco, è ben troppo, questa volta sono io che lo
avverto che ha il passo sbagliato, e lo ho guardato, e ho visto i suoi occhi,
dietro le gocciole di pioggia degli occhiali, e sono stati gli occhi dell’uomo
Kraus.
Allora avvenne un fatto
importante, e mette conto di raccontarlo adesso, forse per la stessa ragione
per cui metteva conto che avvenisse allora. Mi accadde di fare un lungo
discorso a Kraus: in cattivo tedesco, ma lento e staccato, sincerandomi, dopo
ogni frase, che lui l’avesse capita.
Gli raccontai che avevo sognato
di essere a casa mia, nella casa dove ero nato, seduto con la mia famiglia, con
le gambe sotto il tavolo, e sopra molta, moltissima roba da mangiare. Ed era
d’estate, ed era in Italia: a Napoli? ... ma sì, a Napoli, non è il caso di
sottilizzare. Ed ecco, a un tratto suonava il campanello, e io mi alzavo pieno
di ansia, e andavo ad aprire, e chi si vedeva? Lui, il qui presente Kraus Pali,
coi capelli, pulito e grasso, e vestito da uomo libero, e in mano una pagnotta.
Da due chili, ancora calda. Allora « Servus, Pali, wie geht’s?» e mi sentivo
pieno di gioia, e lo facevo entrare e spiegavo ai miei chi era, e che veniva da
Budapest, e perché era così bagnato: perché era bagnato, così, come adesso. E
gli davo da mangiare e da bere, e poi un buon letto per dormire, ed era notte,
ma c’era un meraviglioso tepore per cui in un momento eravamo tutti asciutti
(sì, perché anch’io ero molto bagnato).
Che buon ragazzo doveva essere
Kraus da borghese: non vivrà a lungo qui dentro, questo si vede al primo
sguardo e si dimostra come un teorema. Mi dispiace non sapere l’ungherese, ecco
che la sua commozione ha rotto gli argini, ed erompe in una marea di bislacche
parole magiare. Non ho potuto capire altro che il mio nome, ma dai gesti
solenni si direbbe che giura ed augura.
Povero sciocco Kraus. Se sapesse
che non è vero, che non ho sognato proprio niente di lui, che per me anche lui
è niente, fuorché in un breve momento, niente come tutto è niente quaggiù, se
non la fame dentro, e il freddo e la pioggia intorno.
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