Nell’estate del 1944 lo sbarco alleato in Normandia e l’avanzata
del fronte russo non migliorano la vita nel Lager, anzi, la peggiorano: i
bombardamenti nella zona rendono ancora più dure le condizioni dei prigionieri,
visti ormai dai tedeschi come coloro che “stanno dall’altra parte”, dalla parte
di chi bombarda. In quell’estate Primo Levi incontra Lorenzo, un operaio civile
italiano che per sei mesi lo aiutò concretamente e soprattutto moralmente: è
grazie a lui, dice Primo Levi, se sono sopravvissuto, perché lui mi ha permesso
di non dimenticare “di essere un uomo”.
I FATTI DELL’ESTATE
Durante tutta la primavera erano
arrivati trasporti dall’Ungheria; un prigioniero ogni due era ungherese,
l’ungherese era diventato, dopo l’yiddisch (1), la seconda lingua del campo.
Nel mese di agosto 1944, noi,
entrati cinque mesi prima, contavamo ormai fra gli anziani. Come tali, noi del
Kommando 98 non ci eravamo stupiti che le promesse fatteci e l’esame di chimica
superato non avessero portato a conseguenze: né stupiti, né rattristati oltre
misura: in fondo, avevamo tutti un certo timore dei cambiamenti: «Quando si
cambia, si cambia in peggio», diceva uno dei proverbi del campo. Più in
generale, l’esperienza ci aveva già dimostrato infinite volte la vanità di ogni
previsione: a che scopo travagliarsi per prevedere l’avvenire, quando nessun
nostro atto, nessuna nostra parola lo avrebbe potuto minimamente influenzare?
Eravamo dei vecchi Häftlinge (2): la nostra saggezza era il «non cercar di
capire», non rappresentarsi il futuro, non tormentarsi sul come e sul quando
tutto sarebbe finito: non porre e non porsi domande.
Conservavamo i ricordi della
nostra vita anteriore, ma velati e lontani, e perciò profondamente dolci e
tristi, come sono per ognuno i ricordi della prima infanzia e di tutte le cose
finite; mentre per ognuno il momento dell’ingresso al campo stava all’origine
di una diversa sequenza di ricordi, vicini e duri questi, continuamente
confermati dalla esperienza presente, come ferite ogni giorno riaperte.
Le notizie, apprese in cantiere,
dello sbarco alleato in Normandia, dell’offensiva russa e del fallito attentato
a Hitler, avevano sollevato ondate di speranza violente ma effimere. Ognuno sentiva,
giorno per giorno, le forze fuggire, la volontà di vivere sciogliersi, la mente
ottenebrarsi; e la Normandia e la Russia erano così lontane, e l’inverno così
vicino; così concrete la fame e la desolazione, e così irreale tutto il resto,
che non pareva possibile che veramente esistesse un mondo e un tempo, se non il
nostro mondo di fango, e il nostro tempo sterile e stagnante a cui eravamo
oramai incapaci di immaginare una fine.
Per gli uomini vivi le unità del
tempo hanno sempre un valore, il quale è tanto maggiore, quanto più elevate
sono le risorse interne di chi le percorre; ma per noi, ore, giorni e mesi si
riversavano torpidi dal futuro nel passato, sempre troppo lenti, materia vile e
superflua di cui cercavamo di disfarci al più presto. Conchiuso il tempo in cui
i giorni si inseguivano vivaci, preziosi e irreparabili, il futuro ci stava
davanti grigio e inarticolato, come una barriera invincibile. Per noi, la
storia si era fermata.
Ma nell’agosto ‘44 incominciarono
i bombardamenti sull’Alta Slesia, e si prolungarono, con pause e riprese
irregolari, per tutta l’estate e l’autunno fino alla crisi definitiva.
Il mostruoso concorde travaglio
di gestazione della Buna (3) si arrestò bruscamente, e subito degenerò in una
attività slegata, frenetica e parossistica. Il giorno in cui la produzione
della gomma sintetica avrebbe dovuto incominciare, che nell’agosto pareva
imminente, fu via via rimandato, e i tedeschi finirono col non parlarne più.
Il lavoro costruttivo cessò; la
potenza dello sterminato gregge di schiavi fu rivolta altrove, e si fece di
giorno in giorno più riottosa e passivamente nemica. A ogni incursione, c’erano
sempre nuovi guasti da riparare; smontare e smobilitare il delicato macchinario
da pochi giorni messo faticosamente in opera; erigere frettolosamente rifugi e
protezioni che alla prossima prova si rivelavano ironicamente inconsistenti e
vani.
Noi avevamo creduto che ogni cosa
sarebbe stata preferibile alla monotonia delle giornate uguali e accanitamente
lunghe, allo squallore sistematico e ordinato della Buna in opera; ma abbiamo
dovuto mutare pensiero quando la Buna ha cominciato a cadere a pezzi intorno a
noi, come colpita da una maledizione in cui noi stessi ci sentivamo coinvolti.
Abbiamo dovuto sudare fra la polvere e le macerie roventi, e tremare come
bestie, schiacciati a terra sotto la rabbia degli aerei; tornavamo la sera in
campo, rotti di fatica e asciugati dalla sete, nelle sere lunghissime e ventose
dell’estate polacca, e trovavamo il campo sconvolto, niente acqua per bere e lavarsi,
niente zuppa per le vene vuote, niente luce per difendere il pezzo di pane
l’uno dalla fame dell’altro, e per ritrovare, al mattino, le scarpe e gli abiti
nella bolgia buia e urlante del Block.
Nella Buna imperversavano i
civili tedeschi, nel furore dell’uomo sicuro che si desta da un lungo sogno di
dominio, e vede la sua rovina e non la sa comprendere. Anche i Reichsdeutsche
(4) del Lager, politici compresi, nell’ora del pericolo risentirono il legame
del sangue e del suolo. Il fatto nuovo riportò l’intrico degli odii e delle
incomprensioni ai suoi termini elementari, e ridivise i due campi: i politici,
insieme con i triangoli verdi e le SS vedevano, o credevano di vedere, in
ognuno dei nostri visi lo scherno della rivincita e la trista gioia della vendetta.
Essi trovarono concordia in questo, e la loro ferocia raddoppiò.
Nessun tedesco poteva ormai
dimenticare che noi eravamo dall’altra parte: dalla parte dei terribili
seminatori che solcavano il cielo tedesco da padroni, al di sopra di ogni
sbarramento, e torcevano il ferro vivo delle loro opere, portando ogni giorno
la strage fin dentro alle loro case, nelle case mai prima violate del popolo
tedesco.
Quanto a noi, eravamo troppo
distrutti per temere veramente. I pochi che ancora sapessero rettamente giudicare
e sentire, trassero dai bombardamenti nuova forza e speranza; coloro che la
fame non aveva ancora ridotto all’inerzia definitiva, profittarono spesso dei
momenti di panico generale per intraprendere spedizioni doppiamente temerarie
(poiché, oltre al rischio diretto delle incursioni, il furto consumato in
condizioni di emergenza era punito con l’impiccagione) alla cucina di fabbrica
e ai magazzini. Ma la maggior parte sopportò il nuovo pericolo e il nuovo
disagio con immutata indifferenza: non era rassegnazione cosciente, ma il
torpore opaco delle bestie domate con le percosse, a cui non dolgono più le
percosse.
A noi l’accesso ai rifugi
corazzati era vietato. Quando la terra cominciava a tremare, ci trascinavamo,
storditi e zoppicanti, attraverso i fumi corrosivi dei nebbiogeni, fino alle
vaste aree incolte, sordide e sterili, racchiuse nel recinto della Buna; là
giacevamo inerti, ammonticchiati gli uni sugli altri come morti, sensibili
tuttavia alla momentanea dolcezza delle membra in riposo. Guardavamo con occhi
atoni le colonne di fumo e di fuoco prorompere intorno a noi: nei momenti di
tregua, pieni del lieve ronzio minaccioso che ogni europeo conosce, sceglievamo
dal suolo cento volte calpestato le cicorie e le camomille stente, e le masticavamo
a lungo in silenzio.
Ad allarme finito, ritornavamo da
ogni parte ai nostri posti, gregge muto innumerevole, assueto all’ira degli
uomini e delle cose; e riprendevamo quel nostro lavoro di sempre, odiato come
sempre, e inoltre ormai palesemente inutile e insensato.
In questo mondo scosso ogni
giorno più profondamente dai fremiti della fine vicina, fra nuovi terrori e speranze
e intervalli di schiavitù esacerbata, mi accadde di incontrare Lorenzo.
La storia della mia relazione con
Lorenzo è insieme lunga e breve, piana ed enigmatica; essa è una storia di un
tempo e di una condizione ormai cancellati da ogni realtà presente, e perciò
non credo che potrà essere compresa altrimenti di come si comprendono oggi i
fatti della leggenda e della storia più remota.
In termini concreti, essa si
riduce a poca cosa: un operaio civile italiano mi portò un pezzo di pane e gli
avanzi del suo rancio ogni giorno per sei mesi; mi donò una sua maglia piena di
toppe; scrisse per me in Italia una cartolina, e mi fece avere la risposta. Per
tutto questo, non chiese né accettò alcun compenso, perché era buono e
semplice, e non pensava che si dovesse fare il bene per un compenso.
Tutto questo non deve sembrare
poco. Il mio caso non è stato il solo; come già si è detto, altri fra noi avevano
rapporti di vario genere con civili, e ne traevano di che sopravvivere: ma
erano rapporti di diversa natura. I nostri compagni ne parlavano con lo stesso
tono ambiguo e pieno di sottintesi con cui gli uomini di mondo parlano delle
loro relazioni femminili: e cioè come di avventure di cui si può a buon diritto
andare orgogliosi e di cui si desidera essere invidiati, le quali però, anche
per le coscienze più pagane, rimangono pur sempre al margine del lecito e
dell’onesto; per cui sarebbe scorretto e sconveniente parlarne con troppa
compiacenza. Cosi gli Häftlinge raccontano dei loro «protettori» e «amici»
civili: con ostentata discrezione, senza far nomi, per non comprometterli e
anche e soprattutto per non crearsi indesiderabili rivali. I più consumati, i
seduttori di professione come Henri (5), non ne parlano affatto; essi
circondano i loro successi di un’aura di equivoco mistero, e si limitano agli
accenni e alle allusioni, calcolate in modo da suscitare negli ascoltatori la
leggenda confusa e inquietante che essi godano delle buone grazie di civili
illimitatamente potenti e generosi. Questo in vista di un preciso scopo: la
fama di fortuna, come altrove abbiamo detto, si dimostra di fondamentale utilità
a chi sa circondarsene.
La fama di seduttore, di «organizzato»,
suscita insieme invidia, scherno, disprezzo e ammirazione. Chi si lascia vedere
in atto di mangiare roba «organizzata» viene giudicato assai severamente; è
questa una grave mancanza di pudore e di tatto, oltre che una evidente
stoltezza. Altrettanto stolto e impertinente sarebbe domandare «chi te l’ha
dato? Dove l’hai trovato? Come hai fatto?» Solo i Grossi Numeri (6), sciocchi
inutili e indifesi, che nulla sanno delle regole del Lager, fanno di queste
domande; a queste domande non si risponde, o si risponde «Verschwinde,
Mensch!», «Hau’ ab», «Uciekaj», «Schiess’ in den Wind», «Va chier»; con uno
insomma dei moltissimi equivalenti di «Levati di torno» di cui è ricco il gergo
del campo.
C’è anche chi si specializza in
complesse e pazienti campagne di spionaggio, per individuare qual è il civile o
il gruppo di civili a cui il tale fa capo, e cerca poi in vari modi di
soppiantarlo. Ne nascono interminabili controversie di priorità, rese più amare
per il perdente dal fatto che un civile già «sgrossato» è quasi sempre più
redditizio, e soprattutto più sicuro, di un civile al suo primo contatto con
noi. È un civile che vale molto di più, per evidenti ragioni sentimentali e
tecniche: conosce già i fondamenti dell’«organizzazione», le sue regole e i
suoi pericoli, e inoltre ha dimostrato di essere in grado di superare la
barriera di casta.
Infatti, noi per i civili siamo
gli intoccabili. I civili, più o meno esplicitamente, e con tutte le sfumature
che stanno fra il disprezzo e la commiserazione, pensano che, per essere stati
condannati a questa nostra vita, per essere ridotti a questa nostra condizione,
noi dobbiamo esserci macchiati di una qualche misteriosa gravissima colpa. Ci
odono parlare in molte lingue diverse, che essi non comprendono, e che suonano
loro grottesche come voci animali; ci vedono ignobilmente asserviti, senza
capelli, senza onore e senza nome, ogni giorno percossi, ogni giorno più
abietti, e mai leggono nei nostri occhi una luce di ribellione, o di pace, o di
fede. Ci conoscono ladri e malfidi, fangosi cenciosi e affamati, e, confondendo
l’effetto con la causa, ci giudicano degni della nostra abiezione. Chi potrebbe
distinguere i nostri visi? per loro noi siamo «Kazett» (7), neutro singolare.
Naturalmente questo non impedisce
a molti di loro di gettarci qualche volta un pezzo di pane o una patata, o di
affidarci, dopo la distribuzione della «Zivilsuppe» (8) in cantiere, le loro
gamelle da raschiare e restituire lavate. Essi vi si inducono per togliersi di
torno qualche importuno sguardo famelico, o per un momentaneo impulso di
umanità, o per la semplice curiosità di vederci accorrere da ogni parte a
contenderci il boccone l’un l’altro, bestialmente e senza ritegno, finché il
più forte lo ingozza, e allora tutti gli altri se ne vanno scornati e
zoppicanti.
Ora, tra me e Lorenzo non avvenne
nulla di tutto questo. Per quanto di senso può avere il voler precisare le
cause per cui proprio la mia vita, fra migliaia di altre equivalenti, ha potuto
reggere alla prova, io credo che proprio a Lorenzo debbo di essere vivo oggi; e
non tanto per il suo aiuto materiale, quanto per avermi costantemente
rammentato, con la sua presenza, con il suo modo così piano e facile di essere
buono, che ancora esisteva un mondo giusto al di fuori del nostro, qualcosa e
qualcuno di ancora puro e intero, di non corrotto e non selvaggio, estraneo
all’odio e alla paura; qualcosa di assai mal definibile, una remota possibilità
di bene, per cui tuttavia metteva conto di conservarsi.
I personaggi di queste pagine non
sono uomini. La loro umanità è sepolta, o essi stessi l’hanno sepolta, sotto
l’offesa subita o inflitta altrui. Le SS malvage e stolide, i Kapos, i
politici, i criminali, i prominenti grandi e piccoli, fino agli Häftlinge
indifferenziati e schiavi, tutti i gradini della insana gerarchia voluta dai
tedeschi, sono paradossalmente accomunati in una unitaria desolazione interna.
Ma Lorenzo era un uomo; la sua
umanità era pura e incontaminata, egli era al di fuori di questo mondo di negazione.
Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non dimenticare di essere io stesso un uomo.
(1) Yiddish = dialetto degli
ebrei dell’Europa centro-orientale.
(2) Häftlinge = detenuti.
(3) Buna = è il nome del campo e
della fabbrica che vi era all’interno ed anche del materiale sintetico che vi
doveva essere prodotto.
(4) Reichsdeutsche = tedesco del
Reich, tedesco ariano (qui però Levi si riferisce ai rinchiusi in Lager per
diverse ragioni).
(5) Henri = vedi il capitolo 9 “I
sommersi e i salvati”.
(6) Grossi Numeri = quelli che
hanno un numero alto tatuato sul braccio, dunque, gli ultimi arrivati.
(7) Kazett = abbreviazione per “campo
di concentramento”.
(8) Zivilsuppe = la zuppa destinata
ai civili.
Alcuni membri delle SS nel Lager di Auschwitz (da sinistra Josef Kramer,
comandante del campo di Bergen Belsen, il capitano delle SS Josef Mergele,
Richard Baer, comandante del campo di Auschwitz, il tenente delle SS Karl-Friedrich
Höcker e un altro tenente sconosciuto)
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