lunedì 16 gennaio 2017

45 Se questo è un uomo - capitolo 12: I FATTI DELL'ESTATE (di Primo Levi)




Nell’estate del 1944 lo sbarco alleato in Normandia e l’avanzata del fronte russo non migliorano la vita nel Lager, anzi, la peggiorano: i bombardamenti nella zona rendono ancora più dure le condizioni dei prigionieri, visti ormai dai tedeschi come coloro che “stanno dall’altra parte”, dalla parte di chi bombarda. In quell’estate Primo Levi incontra Lorenzo, un operaio civile italiano che per sei mesi lo aiutò concretamente e soprattutto moralmente: è grazie a lui, dice Primo Levi, se sono sopravvissuto, perché lui mi ha permesso di non dimenticare “di essere un uomo”.

I FATTI DELL’ESTATE

Durante tutta la primavera erano arrivati trasporti dall’Ungheria; un prigioniero ogni due era ungherese, l’ungherese era diventato, dopo l’yiddisch (1), la seconda lingua del campo.
Nel mese di agosto 1944, noi, entrati cinque mesi prima, contavamo ormai fra gli anziani. Come tali, noi del Kommando 98 non ci eravamo stupiti che le promesse fatteci e l’esame di chimica superato non avessero portato a conseguenze: né stupiti, né rattristati oltre misura: in fondo, avevamo tutti un certo timore dei cambiamenti: «Quando si cambia, si cambia in peggio», diceva uno dei proverbi del campo. Più in generale, l’esperienza ci aveva già dimostrato infinite volte la vanità di ogni previsione: a che scopo travagliarsi per prevedere l’avvenire, quando nessun nostro atto, nessuna nostra parola lo avrebbe potuto minimamente influenzare? Eravamo dei vecchi Häftlinge (2): la nostra saggezza era il «non cercar di capire», non rappresentarsi il futuro, non tormentarsi sul come e sul quando tutto sarebbe finito: non porre e non porsi domande.
Conservavamo i ricordi della nostra vita anteriore, ma velati e lontani, e perciò profondamente dolci e tristi, come sono per ognuno i ricordi della prima infanzia e di tutte le cose finite; mentre per ognuno il momento dell’ingresso al campo stava all’origine di una diversa sequenza di ricordi, vicini e duri questi, continuamente confermati dalla esperienza presente, come ferite ogni giorno riaperte.
Le notizie, apprese in cantiere, dello sbarco alleato in Normandia, dell’offensiva russa e del fallito attentato a Hitler, avevano sollevato ondate di speranza violente ma effimere. Ognuno sentiva, giorno per giorno, le forze fuggire, la volontà di vivere sciogliersi, la mente ottenebrarsi; e la Normandia e la Russia erano così lontane, e l’inverno così vicino; così concrete la fame e la desolazione, e così irreale tutto il resto, che non pareva possibile che veramente esistesse un mondo e un tempo, se non il nostro mondo di fango, e il nostro tempo sterile e stagnante a cui eravamo oramai incapaci di immaginare una fine.
Per gli uomini vivi le unità del tempo hanno sempre un valore, il quale è tanto maggiore, quanto più elevate sono le risorse interne di chi le percorre; ma per noi, ore, giorni e mesi si riversavano torpidi dal futuro nel passato, sempre troppo lenti, materia vile e superflua di cui cercavamo di disfarci al più presto. Conchiuso il tempo in cui i giorni si inseguivano vivaci, preziosi e irreparabili, il futuro ci stava davanti grigio e inarticolato, come una barriera invincibile. Per noi, la storia si era fermata.

Ma nell’agosto ‘44 incominciarono i bombardamenti sull’Alta Slesia, e si prolungarono, con pause e riprese irregolari, per tutta l’estate e l’autunno fino alla crisi definitiva.
Il mostruoso concorde travaglio di gestazione della Buna (3) si arrestò bruscamente, e subito degenerò in una attività slegata, frenetica e parossistica. Il giorno in cui la produzione della gomma sintetica avrebbe dovuto incominciare, che nell’agosto pareva imminente, fu via via rimandato, e i tedeschi finirono col non parlarne più.
Il lavoro costruttivo cessò; la potenza dello sterminato gregge di schiavi fu rivolta altrove, e si fece di giorno in giorno più riottosa e passivamente nemica. A ogni incursione, c’erano sempre nuovi guasti da riparare; smontare e smobilitare il delicato macchinario da pochi giorni messo faticosamente in opera; erigere frettolosamente rifugi e protezioni che alla prossima prova si rivelavano ironicamente inconsistenti e vani.
Noi avevamo creduto che ogni cosa sarebbe stata preferibile alla monotonia delle giornate uguali e accanitamente lunghe, allo squallore sistematico e ordinato della Buna in opera; ma abbiamo dovuto mutare pensiero quando la Buna ha cominciato a cadere a pezzi intorno a noi, come colpita da una maledizione in cui noi stessi ci sentivamo coinvolti. Abbiamo dovuto sudare fra la polvere e le macerie roventi, e tremare come bestie, schiacciati a terra sotto la rabbia degli aerei; tornavamo la sera in campo, rotti di fatica e asciugati dalla sete, nelle sere lunghissime e ventose dell’estate polacca, e trovavamo il campo sconvolto, niente acqua per bere e lavarsi, niente zuppa per le vene vuote, niente luce per difendere il pezzo di pane l’uno dalla fame dell’altro, e per ritrovare, al mattino, le scarpe e gli abiti nella bolgia buia e urlante del Block.
Nella Buna imperversavano i civili tedeschi, nel furore dell’uomo sicuro che si desta da un lungo sogno di dominio, e vede la sua rovina e non la sa comprendere. Anche i Reichsdeutsche (4) del Lager, politici compresi, nell’ora del pericolo risentirono il legame del sangue e del suolo. Il fatto nuovo riportò l’intrico degli odii e delle incomprensioni ai suoi termini elementari, e ridivise i due campi: i politici, insieme con i triangoli verdi e le SS vedevano, o credevano di vedere, in ognuno dei nostri visi lo scherno della rivincita e la trista gioia della vendetta. Essi trovarono concordia in questo, e la loro ferocia raddoppiò.
Nessun tedesco poteva ormai dimenticare che noi eravamo dall’altra parte: dalla parte dei terribili seminatori che solcavano il cielo tedesco da padroni, al di sopra di ogni sbarramento, e torcevano il ferro vivo delle loro opere, portando ogni giorno la strage fin dentro alle loro case, nelle case mai prima violate del popolo tedesco.
Quanto a noi, eravamo troppo distrutti per temere veramente. I pochi che ancora sapessero rettamente giudicare e sentire, trassero dai bombardamenti nuova forza e speranza; coloro che la fame non aveva ancora ridotto all’inerzia definitiva, profittarono spesso dei momenti di panico generale per intraprendere spedizioni doppiamente temerarie (poiché, oltre al rischio diretto delle incursioni, il furto consumato in condizioni di emergenza era punito con l’impiccagione) alla cucina di fabbrica e ai magazzini. Ma la maggior parte sopportò il nuovo pericolo e il nuovo disagio con immutata indifferenza: non era rassegnazione cosciente, ma il torpore opaco delle bestie domate con le percosse, a cui non dolgono più le percosse.
A noi l’accesso ai rifugi corazzati era vietato. Quando la terra cominciava a tremare, ci trascinavamo, storditi e zoppicanti, attraverso i fumi corrosivi dei nebbiogeni, fino alle vaste aree incolte, sordide e sterili, racchiuse nel recinto della Buna; là giacevamo inerti, ammonticchiati gli uni sugli altri come morti, sensibili tuttavia alla momentanea dolcezza delle membra in riposo. Guardavamo con occhi atoni le colonne di fumo e di fuoco prorompere intorno a noi: nei momenti di tregua, pieni del lieve ronzio minaccioso che ogni europeo conosce, sceglievamo dal suolo cento volte calpestato le cicorie e le camomille stente, e le masticavamo a lungo in silenzio.
Ad allarme finito, ritornavamo da ogni parte ai nostri posti, gregge muto innumerevole, assueto all’ira degli uomini e delle cose; e riprendevamo quel nostro lavoro di sempre, odiato come sempre, e inoltre ormai palesemente inutile e insensato.

In questo mondo scosso ogni giorno più profondamente dai fremiti della fine vicina, fra nuovi terrori e speranze e intervalli di schiavitù esacerbata, mi accadde di incontrare Lorenzo.
La storia della mia relazione con Lorenzo è insieme lunga e breve, piana ed enigmatica; essa è una storia di un tempo e di una condizione ormai cancellati da ogni realtà presente, e perciò non credo che potrà essere compresa altrimenti di come si comprendono oggi i fatti della leggenda e della storia più remota.
In termini concreti, essa si riduce a poca cosa: un operaio civile italiano mi portò un pezzo di pane e gli avanzi del suo rancio ogni giorno per sei mesi; mi donò una sua maglia piena di toppe; scrisse per me in Italia una cartolina, e mi fece avere la risposta. Per tutto questo, non chiese né accettò alcun compenso, perché era buono e semplice, e non pensava che si dovesse fare il bene per un compenso.
Tutto questo non deve sembrare poco. Il mio caso non è stato il solo; come già si è detto, altri fra noi avevano rapporti di vario genere con civili, e ne traevano di che sopravvivere: ma erano rapporti di diversa natura. I nostri compagni ne parlavano con lo stesso tono ambiguo e pieno di sottintesi con cui gli uomini di mondo parlano delle loro relazioni femminili: e cioè come di avventure di cui si può a buon diritto andare orgogliosi e di cui si desidera essere invidiati, le quali però, anche per le coscienze più pagane, rimangono pur sempre al margine del lecito e dell’onesto; per cui sarebbe scorretto e sconveniente parlarne con troppa compiacenza. Cosi gli Häftlinge raccontano dei loro «protettori» e «amici» civili: con ostentata discrezione, senza far nomi, per non comprometterli e anche e soprattutto per non crearsi indesiderabili rivali. I più consumati, i seduttori di professione come Henri (5), non ne parlano affatto; essi circondano i loro successi di un’aura di equivoco mistero, e si limitano agli accenni e alle allusioni, calcolate in modo da suscitare negli ascoltatori la leggenda confusa e inquietante che essi godano delle buone grazie di civili illimitatamente potenti e generosi. Questo in vista di un preciso scopo: la fama di fortuna, come altrove abbiamo detto, si dimostra di fondamentale utilità a chi sa circondarsene.
La fama di seduttore, di «organizzato», suscita insieme invidia, scherno, disprezzo e ammirazione. Chi si lascia vedere in atto di mangiare roba «organizzata» viene giudicato assai severamente; è questa una grave mancanza di pudore e di tatto, oltre che una evidente stoltezza. Altrettanto stolto e impertinente sarebbe domandare «chi te l’ha dato? Dove l’hai trovato? Come hai fatto?» Solo i Grossi Numeri (6), sciocchi inutili e indifesi, che nulla sanno delle regole del Lager, fanno di queste domande; a queste domande non si risponde, o si risponde «Verschwinde, Mensch!», «Hau’ ab», «Uciekaj», «Schiess’ in den Wind», «Va chier»; con uno insomma dei moltissimi equivalenti di «Levati di torno» di cui è ricco il gergo del campo.
C’è anche chi si specializza in complesse e pazienti campagne di spionaggio, per individuare qual è il civile o il gruppo di civili a cui il tale fa capo, e cerca poi in vari modi di soppiantarlo. Ne nascono interminabili controversie di priorità, rese più amare per il perdente dal fatto che un civile già «sgrossato» è quasi sempre più redditizio, e soprattutto più sicuro, di un civile al suo primo contatto con noi. È un civile che vale molto di più, per evidenti ragioni sentimentali e tecniche: conosce già i fondamenti dell’«organizzazione», le sue regole e i suoi pericoli, e inoltre ha dimostrato di essere in grado di superare la barriera di casta.
Infatti, noi per i civili siamo gli intoccabili. I civili, più o meno esplicitamente, e con tutte le sfumature che stanno fra il disprezzo e la commiserazione, pensano che, per essere stati condannati a questa nostra vita, per essere ridotti a questa nostra condizione, noi dobbiamo esserci macchiati di una qualche misteriosa gravissima colpa. Ci odono parlare in molte lingue diverse, che essi non comprendono, e che suonano loro grottesche come voci animali; ci vedono ignobilmente asserviti, senza capelli, senza onore e senza nome, ogni giorno percossi, ogni giorno più abietti, e mai leggono nei nostri occhi una luce di ribellione, o di pace, o di fede. Ci conoscono ladri e malfidi, fangosi cenciosi e affamati, e, confondendo l’effetto con la causa, ci giudicano degni della nostra abiezione. Chi potrebbe distinguere i nostri visi? per loro noi siamo «Kazett» (7), neutro singolare.
Naturalmente questo non impedisce a molti di loro di gettarci qualche volta un pezzo di pane o una patata, o di affidarci, dopo la distribuzione della «Zivilsuppe» (8) in cantiere, le loro gamelle da raschiare e restituire lavate. Essi vi si inducono per togliersi di torno qualche importuno sguardo famelico, o per un momentaneo impulso di umanità, o per la semplice curiosità di vederci accorrere da ogni parte a contenderci il boccone l’un l’altro, bestialmente e senza ritegno, finché il più forte lo ingozza, e allora tutti gli altri se ne vanno scornati e zoppicanti.
Ora, tra me e Lorenzo non avvenne nulla di tutto questo. Per quanto di senso può avere il voler precisare le cause per cui proprio la mia vita, fra migliaia di altre equivalenti, ha potuto reggere alla prova, io credo che proprio a Lorenzo debbo di essere vivo oggi; e non tanto per il suo aiuto materiale, quanto per avermi costantemente rammentato, con la sua presenza, con il suo modo così piano e facile di essere buono, che ancora esisteva un mondo giusto al di fuori del nostro, qualcosa e qualcuno di ancora puro e intero, di non corrotto e non selvaggio, estraneo all’odio e alla paura; qualcosa di assai mal definibile, una remota possibilità di bene, per cui tuttavia metteva conto di conservarsi.
I personaggi di queste pagine non sono uomini. La loro umanità è sepolta, o essi stessi l’hanno sepolta, sotto l’offesa subita o inflitta altrui. Le SS malvage e stolide, i Kapos, i politici, i criminali, i prominenti grandi e piccoli, fino agli Häftlinge indifferenziati e schiavi, tutti i gradini della insana gerarchia voluta dai tedeschi, sono paradossalmente accomunati in una unitaria desolazione interna.
Ma Lorenzo era un uomo; la sua umanità era pura e incontaminata, egli era al di fuori di questo mondo di negazione. Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non dimenticare di essere io stesso un uomo.

(1) Yiddish = dialetto degli ebrei dell’Europa centro-orientale.
(2) Häftlinge = detenuti.
(3) Buna = è il nome del campo e della fabbrica che vi era all’interno ed anche del materiale sintetico che vi doveva essere prodotto.
(4) Reichsdeutsche = tedesco del Reich, tedesco ariano (qui però Levi si riferisce ai rinchiusi in Lager per diverse ragioni).
(5) Henri = vedi il capitolo 9 “I sommersi e i salvati”.
(6) Grossi Numeri = quelli che hanno un numero alto tatuato sul braccio, dunque, gli ultimi arrivati.
(7) Kazett = abbreviazione per “campo di concentramento”.
(8) Zivilsuppe = la zuppa destinata ai civili.


Alcuni membri delle SS nel Lager di Auschwitz (da sinistra Josef Kramer, comandante del campo di Bergen Belsen, il capitano delle SS Josef Mergele, Richard Baer, comandante del campo di Auschwitz, il tenente delle SS Karl-Friedrich Höcker e un altro tenente sconosciuto)






Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.