Nel quinto capitolo di “Se questo è un uomo” Primo Levi esce
dal Ka-Be e si trova assegnato ad un altro Block; qui ha la fortuna di trovare
Alberto, il suo migliore amico. Poi descrive le notti in campo di
concentramento: gli istanti che precedono lo spegnimento delle luci (con il
cantastorie e il cambio delle scarpe rotte), il momento del dormiveglia in cui
i suoni della realtà si mescolano ai suoni dell’incoscienza, il sonno popolato
dall’incubo costante di non essere ascoltato mentre si raccontano le proprie
angosce, lo svuotamento del secchio dei bisogni e il terribile risveglio che fa
iniziare un altro giorno.
LE NOSTRE NOTTI
Dopo venti giorni di Ka-Be,
essendosi la mia ferita praticamente rimarginata, con mio vivo dispiacere sono
stato messo in uscita.
La cerimonia è semplice, ma
comporta un doloroso e pericoloso periodo di riassestamento. Chi non dispone di
particolari appoggi, all’uscita dal Ka-Be non viene restituito al suo Block e
al suo Kommando di prima, ma è arruolato, in base a criteri a me sconosciuti,
in una qualsiasi altra baracca e avviato a un qualsiasi altro lavoro. Di più,
dal Ka-Be si esce nudi; si ricevono vestiti e scarpe «nuovi» (intendo dire, non
quelli lasciati all’ingresso), intorno a cui bisogna adoperarsi con rapidità e
diligenza per adattarli alla propria persona, il che comporta fatica e spese.
Occorre procurarsi daccapo cucchiaio e coltello; infine, e questa è la
circostanza più grave, ci si trova intrusi in un ambiente sconosciuto, fra
compagni mai visti e ostili, con capi di cui non si conosce il carattere e da
cui quindi è difficile guardarsi.
La facoltà umana di scavarsi una
nicchia, di secernere un guscio, di erigersi intorno una tenue barriera di
difesa, anche in circostanze apparentemente disperate, è stupefacente, e
meriterebbe uno studio approfondito. Si tratta di un prezioso lavorio di
adattamento in parte passivo e inconscio, e in parte attivo: di piantare un
chiodo sopra la cuccetta per appendervi le scarpe di notte; di stipulare taciti
patti di non aggressione coi vicini; di intuire e accettare le consuetudini e
le leggi del singolo Kommando e del singolo Block. In virtù di questo lavoro,
dopo qualche settimana si riesce a raggiungere un certo equilibrio, un certo
grado di sicurezza di fronte agli imprevisti; ci si è fatto un nido, il trauma
del travasamento è superato.
Ma l’uomo che esce dal Ka-Be,
nudo e quasi sempre insufficientemente ristabilito, si sente proiettato nel
buio e nel gelo dello spazio siderale. I pantaloni gli cascano di dosso, le
scarpe gli fanno male, la camicia non ha bottoni. Cerca un contatto umano, e
non trova che schiene voltate. È inerme e vulnerabile come un neonato, eppure
al mattino dovrà marciare al lavoro.
In queste condizioni mi trovo io
quando l’infermiere, dopo i vari riti amministrativi prescritti, mi ha affidato
alle cure del Blockältester del Block 45. Ma subito un pensiero mi colma di
gioia: ho avuto fortuna, questo è il Block di Alberto!
Alberto è il mio migliore amico.
Non ha che ventidue anni, due meno di me, ma nessuno di noi italiani ha
dimostrato capacità di adattamento simili alle sue. Alberto è entrato in Lager
a testa alta, e vive in Lager illeso e incorrotto. Ha capito prima di tutti che
questa vita è guerra; non si è concesso indulgenze, non ha perso tempo a
recriminare e a commiserare sé e gli altri, ma fin dal primo giorno è sceso in
campo. Lo sostengono intelligenza e istinto: ragiona giusto, spesso non ragiona
ed è ugualmente nel giusto. Intende tutto a volo: non sa che poco francese, e
capisce quanto gli dicono tedeschi e polacchi. Risponde in italiano e a gesti,
si fa capire e subito riesce simpatico. Lotta per la sua vita, eppure è amico
di tutti. «Sa» chi bisogna corrompere, chi bisogna evitare, chi si può
impietosire, a chi si deve resistere.
Eppure (e per questa sua virtù
oggi ancora la sua memoria mi è cara e vicina) non è diventato un tristo. Ho
sempre visto, e ancora vedo in lui, la rara figura dell’uomo forte e mite,
contro cui si spuntano le armi della notte.
Non sono però riuscito a ottenere
di dormire in cuccetta con lui, e neppure Alberto ci è riuscito, quantunque nel
Block 45 egli goda ormai di una certa popolarità. È peccato, perché avere un compagno di letto di cui
fidarsi, o con cui almeno ci si possa intendere, è un inestimabile vantaggio; e
inoltre, adesso è inverno, e le notti sono lunghe, e dal momento che siamo
costretti a scambiare sudore, odore e calore con qualcuno, sotto la stessa
coperta e in settanta centimetri di larghezza, è assai desiderabile che si
tratti di un amico.
D’inverno le notti sono lunghe, e
ci è concesso per il sonno un intervallo di tempo considerevole.
Si spegne a poco a poco il
tumulto del Block; da più di un’ora è terminata la distribuzione del rancio
serale, e soltanto qualche ostinato persiste a grattare il fondo ormai lucido
della gamella, rigirandola minuziosamente sotto la lampada, con la fronte
corrugata per l’attenzione. L’ingegner Kardos gira per le cuccette a medicare i
piedi feriti ed i calli suppurati, questa è la sua industria; non c’è chi non
rinunzi volentieri ad una fetta di pane, pur che gli venga alleviato il
tormento delle piaghe torpide, che sanguinano ad ogni passo per tutta la
giornata, ed in questo modo, onestamente, l’ingegner Kardos ha risolto il
problema di vivere (1).
Dalla porticina posteriore, di
nascosto e guardandosi attorno con cautela, è entrato il cantastorie. Si è
seduto sulla cuccetta di Wachsmann, e subito gli si è raccolta attorno una
piccola folla attenta e silenziosa. Lui canta una interminabile rapsodia
yiddisch, sempre la stessa, in quartine rimate, di una melanconia rassegnata e
penetrante (o forse tale la ricordo perché allora ed in quel luogo l’ho
udita?); dalle poche parole che capisco, dev’essere una canzone da lui stesso
composta, dove ha racchiuso tutta la vita del Lager, nei più minuti
particolari. Qualcuno è generoso, e rimunera il cantastorie con un pizzico di
tabacco o una gugliata di filo; altri ascoltano assorti, ma non dànno nulla.
Risuona ancora improvviso il richiamo
per l’ultima funzione della giornata: - Wer hat kaputt die Schuhe? - (chi ha le
scarpe rotte?) e subito si scatena il fragore dei quaranta o cinquanta
pretendenti al cambio, i quali si precipitano verso il Tagesraum con furia
disperata, ben sapendo che soltanto i dieci primi arrivati, nella migliore
delle ipotesi, saranno soddisfatti.
Poi è la quiete. La luce si
spegne una prima volta, per pochi secondi, per avvisare i sarti di riporre il
preziosissimo ago e il filo; poi suona lontano la campana, e allora si insedia
la guardia di notte e tutte le luci si spengono definitivamente. Non ci resta
che spogliarci e coricarci.
Non so chi sia il mio vicino; non
sono neppure sicuro che sia sempre la stessa persona, perché non l’ho mai visto
in viso se non per qualche attimo nel tumulto della sveglia, in modo che molto
meglio del suo viso conosco il suo dorso e i suoi piedi. Non lavora nel mio
Kommando e viene in cuccetta solo al momento del silenzio; si avvoltola nella
coperta, mi spinge da parte con un colpo delle anche ossute, mi volge il dorso
e comincia subito a russare. Schiena contro schiena, io mi adopero per
conquistarmi una superficie ragionevole di pagliericcio; esercito colle reni
una pressione progressiva contro le sue reni, poi mi rigiro e provo a spingere
colle ginocchia, gli prendo le caviglie e cerco di sistemarle un po’ più in là
in modo da non avere i suoi piedi accanto al viso: ma tutto è inutile, è molto
più pesante di me e sembra pietrificato dal sonno.
Allora io mi adatto a giacere
così, costretto all’immobilità, per metà sulla sponda di legno. Tuttavia sono
così stanco e stordito che in breve scivolo anch’io nel sonno e mi pare di dormire
sui binari del treno.
Il treno sta per arrivare: si
sente ansare la locomotiva, la quale è il mio vicino. Non sono ancora tanto
addormentato da non accorgermi della duplice natura della locomotiva. Si tratta
precisamente di quella locomotiva che rimorchiava oggi in Buna i vagoni che ci
hanno fatto scaricare: la riconosco dal fatto che anche ora, come quando è
passata vicina a noi, si sente il calore che irradia dal suo fianco nero.
Soffia, è sempre più vicina, è sempre sul punto di essermi addosso, e invece
non arriva mai. Il mio sonno è molto sottile, è un velo, se voglio lo lacero.
Lo farò, voglio lacerarlo, così potrò togliermi dai binari. Ecco, ho voluto, e
ora sono sveglio: ma non proprio sveglio, soltanto un po’ di più, al gradino
superiore della scala fra l’incoscienza e la coscienza. Ho gli occhi chiusi, e
non li voglio aprire per non lasciar fuggire il sonno, ma posso percepire i
rumori: questo fischio lontano sono sicuro che è vero, non viene dalla
locomotiva sognata, è risuonato oggettivamente: è il fischio della Decauville,
viene dal cantiere che lavora anche di notte. Una lunga nota ferma, poi
un’altra più bassa di un semitono, poi di nuovo la prima, ma breve e tronca.
Questo fischio è una cosa importante, e in qualche modo essenziale: così
sovente l’abbiamo udito, associato alla sofferenza del lavoro e del campo, che
ne è divenuto il simbolo, e ne evoca direttamente la rappresentazione, come accade
per certe musiche e certi odori.
Qui c’è mia sorella, e qualche
mio amico non precisato, e molta altra gente. Tutti mi stanno ascoltando, e io
sto raccontando proprio questo: il fischio su tre note, il letto duro, il mio
vicino che io vorrei spostare, ma ho paura di svegliarlo perché è più forte di
me. Racconto anche diffusamente della nostra fame, e del controllo dei
pidocchi, e del Kapo che mi ha percosso sul naso e poi mi ha mandato a lavarmi
perché sanguinavo. È un godimento intenso, fisico, inesprimibile, essere nella
mia casa, fra persone amiche, e avere tante cose da raccontare: ma non posso
non accorgermi che i miei ascoltatori non mi seguono. Anzi, essi sono del tutto
indifferenti: parlano confusamente d’altro fra di loro, come se io non ci
fossi. Mia sorella mi guarda, si alza e se ne va senza far parola. Allora nasce
in me una pena desolata, come certi dolori appena ricordati della prima
infanzia: è dolore allo stato puro, non temperato dal senso della realtà e
dalla intrusione di circostanze estranee, simile a quelli per cui i bambini
piangono; ed è meglio per me risalire ancora una volta in superficie, ma questa
volta apro deliberatamente gli occhi, per avere di fronte a me stesso una
garanzia di essere effettivamente sveglio.
Il sogno mi sta davanti, ancora
caldo, e io, benché sveglio, sono tuttora pieno della sua angoscia: e allora mi
ricordo che questo non è un sogno qualunque, ma che da quando sono qui l’ho già
sognato, non una ma molte volte, con poche variazioni di ambiente e di
particolari. Ora sono in piena lucidità, e mi rammento anche di averlo già
raccontato ad Alberto, e che lui mi ha confidato, con mia meraviglia, che
questo è anche il suo sogno, e il sogno di molti altri, forse di tutti. Perché
questo avviene? Perché il dolore di tutti i giorni si traduce nei nostri sogni
così costantemente, nella scena sempre ripetuta della narrazione fatta e non
ascoltata?
... Mentre così medito, cerco di
profittare dell’intervallo di veglia per scuotermi di dosso i brandelli di
angoscia del sopore precedente, in modo da non compromettere la qualità del
sonno successivo. Mi rannicchio a sedere nel buio, mi guardo intorno e tendo
l’orecchio.
Si sentono i dormienti respirare
e russare, qualcuno geme e parla. Molti schioccano le labbra e dimenano le
mascelle. Sognano di mangiare: anche questo è un sogno collettivo. È un sogno
spietato, chi ha creato il mito di Tantalo (2) doveva conoscerlo. Non si vedono
soltanto i cibi, ma si sentono in mano, distinti e concreti, se ne percepisce
l’odore ricco e violento; qualcuno ce li avvicina fino a toccare le labbra, poi
una qualche circostanza, ogni volta diversa, fa sì che l’atto non vada a
compimento. Allora il sogno si disfa e si scinde nei suoi elementi, ma si
ricompone subito dopo, e ricomincia simile e mutato: e questo senza tregua, per
ognuno di noi, per ogni notte e per tutta la durata del sonno.
Devono essere passate le ventitre
perché già è intenso l’andirivieni al secchio, accanto alla guardia di notte. È
un tormento osceno e una vergogna indelebile: ogni due, ogni tre ore ci
dobbiamo alzare, per smaltire la grossa dose di acqua che di giorno siamo
costretti ad assorbire sotto forma di zuppa, per soddisfare la fame: quella
stessa acqua che alla sera ci gonfia le caviglie e le occhiaie, impartendo a
tutte le fisionomie una deforme rassomiglianza, e la cui eliminazione impone ai
reni un lavoro sfibrante.
Non si tratta solo della
processione al secchio: è legge che l’ultimo utente del secchio medesimo vada a
vuotarlo alla latrina; è legge altresì, che di notte non si esca dalla baracca
se non in tenuta notturna (camicia e mutande), e consegnando il proprio numero
alla guardia. Ne segue, prevedibilmente, che la guardia notturna cercherà di
esonerare dal servizio i suoi amici, i connazionali e i prominenti (3); si
aggiunga ancora che i vecchi del campo hanno talmente affinato i loro sensi
che, pur restando nelle loro cuccette, sono miracolosamente in grado di
distinguere, soltanto in base al suono delle pareti del secchio, se il livello
è o no al limite pericoloso, per cui riescono quasi sempre a sfuggire alla
svuotatura. Perciò i candidati al servizio del secchio sono, in ogni baracca,
un numero assai limitato, mentre i litri complessivi da eliminare sono almeno
duecento, e il secchio deve quindi essere vuotato una ventina di volte.
In conclusione, è assai grave il
rischio che incombe su di noi, inesperti e non privilegiati, ogni notte, quando
la necessità ci spinge al secchio. Improvvisamente la guardia di notte balza
dal suo angolo e ci agguanta, si scarabocchia il nostro numero, ci consegna un
paio di suole di legno e il secchio, e ci caccia fuori in mezzo alla neve,
tremanti e insonnoliti. A noi tocca trascinarci fino alla latrina, col secchio
che ci urta i polpacci nudi, disgustosamente caldo; è pieno oltre ogni limite
ragionevole, e inevitabilmente, con le scosse, qualcosa ci trabocca sui piedi,
talché, per quanto questa funzione sia ripugnante, è pur sempre preferibile
esservi comandati noi stessi piuttosto che il nostro vicino di cuccetta.
Così si trascinano le nostre
notti. Il sogno di Tantalo e il sogno del racconto si inseriscono in un tessuto
di immagini più indistinte: la sofferenza del giorno, composta di fame,
percosse, freddo, fatica, paura e promiscuità, si volge di notte in incubi
informi di inaudita violenza, quali nella vita libera occorrono solo nelle
notti di febbre. Ci si sveglia a ogni istante, gelidi di terrore, con un
sussulto di tutte le membra, sotto l’impressione di un ordine gridato da una
voce piena di collera, in una lingua incompresa. La processione del secchio e i
tonfi dei calcagni nudi sul legno del pavimento si mutano in un’altra simbolica
processione: siamo noi, grigi e identici, piccoli come formiche e grandi fino
alle stelle, serrati uno contro l’altro, innumerevoli per tutta la pianura fino
all’orizzonte; talora fusi in un’unica sostanza, un impasto angoscioso in cui
ci sentiamo invischiati e soffocati; talora in marcia a cerchio, senza
principio e senza fine, con vertigine accecante e una marea di nausea che ci
sale dai precordi (4) alla gola; finché la fame, o il freddo, o la pienezza
della vescica non convogliano i sogni entro gli schemi consueti. Cerchiamo
invano, quando l’incubo stesso o il disagio ci svegliano, di districarne gli
elementi, e di ricacciarli separatamente fuori dal campo dell’attenzione
attuale, in modo da difendere il sonno dalla loro intrusione: non appena gli
occhi si richiudono, ancora una volta percepiamo il nostro cervello mettersi in
moto al di fuori del nostro volere; picchia e ronza, incapace di riposo,
fabbrica fantasmi e segni terribili, e senza posa li disegna e li agita in
nebbia grigia sullo schermo dei sogni.
Ma per tutta la durata della
notte, attraverso tutte le alternanze di sonno, di veglia e di incubo, vigila
l’attesa e il terrore del momento della sveglia: mediante la misteriosa facoltà
che molti conoscono, noi siamo in grado, pur senza orologi, di prevederne lo
scoccare con grande approssimazione. All’ora della sveglia, che varia da
stagione a stagione ma cade sempre assai prima dell’alba, suona a lungo la
campanella del campo, e allora in ogni baracca la guardia di notte smonta:
accende le luci, si alza, si stira, e pronunzia la condanna di ogni giorno:
Aufstehen, - o più spesso, in polacco: - Wstawac.
Pochissimi attendono dormendo lo
Wstawac: è un momento di pena troppo acuta perché il sonno più duro non si
sciolga al suo approssimarsi. La guardia notturna lo sa, ed è per questo che
non lo pronunzia con tono di comando, ma con voce piana e sommessa, come di chi
sa che l’annunzio troverà tutte le orecchie tese, e sarà udito e obbedito.
La parola straniera cade come una
pietra sul fondo di tutti gli animi. «Alzarsi»: l’illusoria barriera delle
coperte calde, l’esile corazza del sonno, la pur tormentosa evasione notturna,
cadono a pezzi intorno a noi, e ci ritroviamo desti senza remissione, esposti
all’offesa, atrocemente nudi e vulnerabili. Incomincia un giorno come ogni
giorno, lungo a tal segno da non potersene ragionevolmente concepire la fine,
tanto freddo, tanta fame, tanta fatica ce ne separano: per cui è meglio
concentrare l’attenzione e il desiderio sul blocchetto di pane grigio, che è
piccolo, ma fra un’ora sarà certamente nostro, e per cinque minuti, finché non
l’avremo divorato, costituirà tutto quanto la legge del luogo ci consente di
possedere.
Allo Wstawac si rimette in moto
la bufera. L’intera baracca entra senza transizione in attività frenetica:
ognuno si arrampica su e giù, rifà la cuccetta e cerca contemporaneamente di
vestirsi, in modo da non lasciare nessuno dei suoi oggetti incustodito;
l’atmosfera si riempie di polvere fino a diventare opaca; i più svelti fendono
a gomitate la calca per recarsi al lavatoio e alla latrina prima che vi si
costituisca la coda. Immediatamente entrano in scena gli scopini, e cacciano
tutti fuori, picchiando e urlando.
Quando io ho rifatto la cuccia e
mi sono vestito, scendo sul pavimento e mi infilo le scarpe. Allora mi si
riaprono le piaghe dei piedi, e incomincia una nuova giornata.
(1) In quanto, per il suo
ufficio, viene pagato con fette di pane, che gli permettono di nutrirsi più
degli altri.
(2) Tantalo = personaggio della
mitologia greca, che, per aver invitato gli dei a un banchetto durante il quale
offre loro carne umana, viene punito con un supplizio particolare:
continuamente affamato e assetato, si trova circondato da cibo e acqua, ma,
appena cerca di afferrarli, questi svaniscono o gli sfuggono.
(3) Prominenti = coloro che
ricoprono in qualche modo un ruolo importante, che hanno maggiore autorità.
(4) Precordi = il diaframma che
avvolge il cuore, secondo un’antica denominazione; in sostanza significa dal
cuore, dall’animo, dalla profondità interiore.
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