In campo di concentramento la semplice prospettiva che sta
per arrivare la primavera può trasformare la giornata in una “buona giornata”;
se in più ci si mette un’improvvisa razione di zuppa scartata da altri, allora
per un po’ si può essere «infelici
alla maniera degli uomini liberi».
UNA BUONA GIORNATA
La persuasione che la vita ha uno
scopo è radicata in ogni fibra di uomo, è una proprietà della sostanza umana.
Gli uomini liberi dànno a questo scopo molti nomi, e sulla sua natura molto
pensano e discutono: ma per noi la questione è più semplice.
Oggi e qui, il nostro scopo è di
arrivare a primavera. Di altro, ora, non ci curiamo. Dietro a questa meta non
c’è, ora, altra meta. Al mattino, quando, in fila in piazza dell’Appello,
aspettiamo senza fine l’ora di partire per il lavoro, e ogni soffio di vento
penetra sotto le vesti e corre in brividi violenti per i nostri corpi indifesi,
e tutto è grigio intorno, e noi siamo grigi; al mattino, quando è ancor buio,
tutti scrutiamo il cielo a oriente a spiare i primi indizi della stagione mite,
e il levare del sole viene ogni giorno commentato: oggi un po’ prima di ieri;
oggi un po’ più caldo di ieri; fra due mesi, fra un mese, il freddo ci darà
tregua, e avremo un nemico di meno.
Oggi per la prima volta il sole è
sorto vivo e nitido fuori dell’orizzonte di fango. È un sole polacco freddo bianco e lontano, e non
riscalda che l’epidermide, ma quando si è sciolto dalle ultime brume un
mormorio è corso sulla nostra moltitudine senza colore, e quando io pure ho
sentito il tepore attraverso i panni, ho compreso come si possa adorare il
sole.
- Das Schlimmste ist vorüber, -
dice Ziegler tendendo al sole le spalle aguzze: il peggio è passato. Accanto a
noi è un gruppo di greci, di questi ammirevoli e terribili ebrei Saloniki
tenaci, ladri, saggi, feroci e solidali, così determinati a vivere e così
spietati avversari nella lotta per la vita; di quei greci che hanno prevalso
nelle cucine e in cantiere, e che perfino i tedeschi rispettano e i polacchi
temono. Sono al loro terzo anno di campo, e nessuno sa meglio di loro che cosa
è il campo; ora stanno stretti in cerchio, spalla a spalla, e cantano una delle
loro interminabili cantilene. Felicio il greco mi conosce: - L’année prochaine
à la maison! - mi grida; ed aggiunge: - ... à la maison par la Cheminée! (1)-
Felicio è stato a Birkenau. E continuano a cantare, e battono i piedi in cadenza
e si ubriacano di canzoni.
Quando siamo finalmente usciti
dalla grande porta del campo, il sole era discretamente alto e il cielo sereno.
Si vedevano a mezzogiorno le montagne; a ponente, familiare e incongruo, il
campanile di Auschwitz (qui, un campanile!) e tutto intorno i palloni frenati (2)
dello sbarramento. I fumi della Buna ristagnavano nell’aria fredda, e si vedeva
anche una fila di colline basse, verdi di foreste: e a noi si è stretto il
cuore, perché tutti sappiamo che là è Birkenau, che là sono finite le nostre donne,
e presto anche noi vi finiremo: ma non siamo abituati a vederlo.
Per la prima volta ci siamo
accorti che, ai due lati della strada, anche qui i prati sono verdi: perché, se
non c’è sole, un prato è come se non fosse verde.
La Buna no: la Buna è
disperatamente ed essenzialmente opaca e grigia. Questo sterminato intrico di
ferro, di cemento, di fango e di fumo è la negazione della bellezza. Le sue
strade e i suoi edifici si chiamano come noi, con numeri o lettere, o con nomi
disumani e sinistri. Dentro al suo recinto non cresce un filo d’erba, e la
terra è impregnata dei succhi velenosi del carbone e del petrolio, e nulla è
vivo se non macchine e schiavi: e più quelle di questi.
La Buna è grande come una città;
vi lavorano, oltre ai dirigenti e ai tecnici tedeschi, quarantamila stranieri,
e vi si parlano quindici o venti linguaggi. Tutti gli stranieri abitano in vari
Lager, che alla Buna fanno corona: il Lager dei prigionieri di guerra inglesi,
il Lager delle donne ucraine, il Lager dei francesi volontari, e altri che noi
non conosciamo. Il nostro Lager (Judenlager, Vernichtungslager, Kazett) (3) fornisce
da solo diecimila lavoratori, che vengono da tutte le nazioni d’Europa; e noi
siamo gli schiavi degli schiavi, a cui tutti possono comandare, e il nostro
nome è il numero che portiamo tatuato sul braccio e cucito sul petto.
La Torre del Carburo, che sorge
in mezzo alla Buna e la cui sommità è raramente visibile in mezzo alla nebbia, siamo
noi che l’abbiamo costruita. I suoi mattoni sono stati chiamati Ziegel,
briques, tegula, cegli, kamenny, bricks, téglak (4), e l’odio li ha cementati;
l’odio e la discordia, come la Torre di Babele, e così noi la chiamiamo
Babelturm, Bobelturm; e odiamo in essa il sogno demente di grandezza dei nostri
padroni, il loro disprezzo di Dio e degli uomini, di noi uomini.
E oggi ancora, così come nella
favola antica, noi tutti sentiamo, e i tedeschi stessi sentono, che una
maledizione, non trascendente e divina, ma immanente e storica, pende sulla
insolente compagine, fondata sulla confusione dei linguaggi ed eretta a sfida
del cielo come una bestemmia di pietra.
Come diremo, dalla fabbrica di
Buna, attorno a cui per quattro anni i tedeschi si adoperarono, e in cui noi
soffrimmo e morimmo innumerevoli, non uscì mai un chilogrammo di gomma
sintetica.
Ma oggi le eterne pozzanghere, su
cui trema un velo iridato di petrolio, riflettono il cielo sereno. Tubi, travi,
caldaie, ancora freddi del gelo della notte, sono grondanti di rugiada. La
terra smossa degli scavi, i mucchi di carbone, i blocchi di cemento, esalano in
lieve nebbia l’umidità dell’inverno.
Oggi è una buona giornata. Ci
guardiamo intorno, come ciechi che riacquistino la vista, e ci guardiamo l’un
l’altro. Non ci eravamo mai visti al sole: qualcuno sorride. Se non fosse della
fame!
Poiché tale è la natura umana,
che le pene e i dolori simultaneamente sofferti non si sommano per intero nella
nostra sensibilità, ma si nascondono, i minori dietro i maggiori, secondo una
legge prospettica definita. Questo è provvidenziale, e ci permette di vivere in
campo. Ed è anche questa la ragione per cui così spesso, nella vita libera, si
sente dire che l’uomo è incontentabile: mentre, piuttosto che di una incapacità
umana per uno stato di benessere assoluto, si tratta di una sempre
insufficiente conoscenza della natura complessa dello stato di infelicità, per
cui alle sue cause, che sono molteplici e gerarchicamente disposte, si dà un
solo nome, quello della causa maggiore; fino a che questa abbia eventualmente a
venir meno, e allora ci si stupisce dolorosamente al vedere che dietro ve n’è
un’altra; e in realtà, una serie di altre.
Perciò, non appena il freddo, che
per tutto l’inverno ci era parso l’unico nemico, è cessato, noi ci siamo
accorti di avere fame: e, ripetendo lo stesso errore, così oggi diciamo: «Se
non fosse della fame!...».
Ma come si potrebbe pensare di non
aver fame? Il Lager è la fame: noi stessi siamo la fame, fame vivente.
Al di là della strada lavora una
draga (5). La benna, sospesa ai cavi, spalanca le mascelle dentate, si libra un
attimo come esitante nella scelta, poi si avventa alla terra argillosa e
morbida, e azzanna vorace, mentre dalla cabina di comando sale uno sbuffo
soddisfatto di fumo bianco e denso. Poi si rialza, fa un mezzo giro, vomita a
tergo il boccone di cui è grave, e ricomincia.
Appoggiati alle nostre pale, noi
stiamo a guardare affascinati. A ogni morso della benna, le bocche si
socchiudono, i pomi d’Adamo danzano in su e poi in giù, miseramente visibili
sotto la pelle floscia. Non riusciamo a svincolarci dallo spettacolo del pasto
della draga.
Sigi ha diciassette anni, ed ha
più fame di tutti quantunque riceva ogni sera un po’ di zuppa da un suo
protettore, verosimilmente non disinteressato. Aveva cominciato col parlare
della sua casa di Vienna e di sua madre, ma poi è scivolato nel tema della
cucina e ora racconta senza fine di non so che pranzo nuziale, e ricorda, con
genuino rimpianto, di non aver finito il terzo piatto di zuppa di fagioli. E
tutti lo fanno tacere, e non passano dieci minuti, che Bela ci descrive la sua
campagna ungherese, e i campi di granoturco, e una ricetta per fare la polenta
dolce, con la meliga (6) tostata, e il lardo, e le spezie, e... e viene
maledetto, insultato, e comincia un terzo a raccontare...
Come è debole la nostra carne! Io
mi rendo conto appieno di quanto siano vane queste fantasie di fame, ma non mi posso
sottrarre alla legge comune, e mi danza davanti agli occhi la pasta asciutta
che avevamo appena cucinata, Vanda, Luciana, Franco ed io, in Italia al campo
di smistamento, quando ci è giunta a un tratto la notizia che all’indomani
saremmo partiti per venire qui; e stavamo mangiandola (era così buona, gialla,
solida) e abbiamo smesso, noi sciocchi, noi insensati: se avessimo saputo! E se
ci dovesse succedere un’altra volta... Assurdo; se una cosa è certa al mondo, è
bene questa; che non ci succederà un’altra volta.
Pischer, l’ultimo arrivato, cava
di tasca un involto, confezionato con la minuzia degli ungheresi, e dentro c’è
mezza razione di pane: la metà del pane di stamattina. È ben noto che solo i
Grossi Numeri (7) conservano in tasca il loro pane; nessuno di noi anziani è in
grado di serbare il pane per un’ora. Varie teorie circolano per giustificare
questa nostra incapacità: il pane mangiato a poco per volta non si assimila del
tutto; la tensione nervosa necessaria per conservare il pane, avendo fame, senza
intaccarlo, è nociva e debilitante in alto grado; il pane che diviene raffermo
perde rapidamente il suo valore alimentare, per cui, quanto prima viene
ingerito, tanto più risulta nutriente; Alberto dice che la fame e il pane in
tasca sono addendi di segno contrario, che si elidono automaticamente a vicenda
e non possono coesistere nello stesso individuo; i più, infine, affermano
giustamente che lo stomaco è la cassaforte più sicura contro i furti e le
estorsioni. - Moi, on m’a jamais volé mon pain! (8) - ringhia David battendosi
lo stomaco concavo: ma non può distrarre gli occhi da Fischer che mastica lento
e metodico, dal «fortunato» che possiede ancora mezza razione alle dieci del
mattino: - ... sacré veinard, va! (9)
Ma non soltanto a causa del sole
oggi è giorno di gioia: a mezzogiorno una sorpresa ci attende. Oltre al rancio
normale del mattino, troviamo nella baracca una meravigliosa marmitta da
cinquanta litri, di quelle della Cucina di Fabbrica, quasi piena. Templer ci
guarda trionfante: questa «organizzazione» è opera sua.
Templer è l’organizzatore
ufficiale del nostro Kommando: ha per la zuppa dei Civili una sensibilità
squisita, come le api per i fiori. Il nostro Kapo, che non è un cattivo Kapo,
gli lascia mano libera, e con ragione: Templer parte seguendo piste
impercettibili, come un segugio, e ritorna con la preziosa notizia che gli
operai polacchi del Metanolo, a due chilometri di qui, hanno avanzato quaranta
litri di zuppa perché sapeva di rancido, o che un vagone di rape sta
incustodito sul binario morto della Cucina di Fabbrica.
Oggi i litri sono cinquanta, e
noi siamo quindici, Kapo e Verarbeiter compresi. Sono tre litri a testa; uno lo
avremo a mezzogiorno, oltre al rancio normale, e per gli altri due, andremo a
turno nel pomeriggio alla baracca, e ci saranno eccezionalmente concessi cinque
minuti di sospensione del lavoro per fare il pieno.
Che si potrebbe desiderare di
più? Anche il lavoro ci pare leggero, con la prospettiva dei due litri densi e
caldi che ci attendono nella baracca. Periodicamente viene il Kapo fra noi, e
chiama: - Wer hat noch zu fressen?
Questo non già per derisione o
per scherno, ma perché realmente questo nostro mangiare in piedi, furiosamente,
scottandoci la bocca e la gola, senza il tempo di respirare, è «fressen», il mangiare
delle bestie, e non certo «essen», il mangiare degli uomini, seduti davanti a
un tavolo, religiosamente. «Fressen» è il vocabolo proprio, quello comunemente
usato fra noi.
Meister Nogalla assiste, e chiude
un occhio sul nostro assentarci dal lavoro. Anche Meister Nogalla ha l’aria di
aver fame, e se non fosse delle convenienze sociali, forse non rifiuterebbe un litro
della nostra broda calda.
Viene il turno di Templer, a cui,
con plebiscitario consenso, sono stati destinati cinque litri, prelevati dal
fondo della marmitta. Ché Templer, oltre a essere un buon organizzatore, è un
eccezionale mangiatore di zuppa, e, cosa unica, è in grado di svuotare l’intestino,
volontariamente e preventivamente, in vista di un pasto voluminoso: il che
contribuisce alla sua capacità gastrica stupefacente.
Di questo suo dono egli va
giustamente fiero, e tutti, anche Meister Nogalla, ne sono a conoscenza.
Accompagnato dalla gratitudine di tutti, il benefattore Templer si chiude pochi
istanti nella latrina, esce radioso e pronto, e si avvia, fra la generale
benevolenza, a godere il frutto della sua opera:
- Nu, Templer, hast du Platz
genug für die Suppe gemacht? (10)
A1 tramonto, suona la sirena del
Feierabend (11), della fine del lavoro; e poiché siamo tutti, almeno per
qualche ora, sazi, così non sorgono litigi, ci sentiamo buoni, il Kapo non si
induce a picchiarci, e siamo capaci di pensare alle nostre madri e alle nostre
mogli, il che di solito non accade. Per qualche ora, possiamo essere infelici
alla maniera degli uomini liberi.
(1) L’année prochaine à la
maison! ... à la maison par la Cheminée = L’anno prossimo a casa! … a casa
attraverso il Camino (quello della camera a gas!).
(2) Palloni frenati = particolari
tipi di aerostati, ancorati al suolo mediante dei cavi, che servivano per
ostacolare l’aviazione nemica.
(3) Judenlager,
Vernichtungslager, Kazett = Campo degli ebrei, Campo di sterminio, Campo di
concentramento.
(4) Ziegel, briques, tegula,
cegli, kamenny, bricks, téglak = mattoni (in diverse lingue).
(5) Draga = escavatore.
(6) Meliga = mais.
(7) Grossi Numeri = i prigionieri
con il numero più alto, quindi gli ultimi arrivati
(8) Moi, on m’a jamais volé mon
pain! = A me non hanno mai rubato il pane!
(9) Sacré veinard, va! = Va via, uomo
fortunato!
(10) Nu, Templer, hast du Platz
genug für die Suppe gemacht? = Allora, Templer, hai fatto abbastanza spazio per
la zuppa?
(11) Feieraben = dopolavoro.
Erba ad Auschwitz, oggi
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