lunedì 16 gennaio 2017

43 Se questo è un uomo - capitolo 10: ESAME DI CHIMICA (di Primo Levi)




In Lager hanno bisogno di uomini per un Kommando Chimico: Primo Levi, che si era laureato in Chimica a Torino, si presenta per essere ammesso a lavorare in tale Kommando. Supererà l’esame a cui viene sottoposto dal Doktor Pannwitz (tipico tedesco con occhi azzurri e capelli biondi), che, al primo sguardo che dà al prigioniero ebreo, esprime tutto il suo disprezzo per una “razza che è opportuno sopprimere”? Oltre al Doktor Pannwitz in questo decimo capitolo compare anche il Kapo Alex, che Primo Levi giudica per i semplici gesti da lui compiuti, «lui e Pannwitz e gli innumerevoli che furono come lui, grandi e piccoli, in Auschwitz e ovunque».

ESAME DI CHIMICA

Il Kommando 98, detto Kommando Chimico, avrebbe dovuto essere un reparto di specialisti.
Il giorno in cui fu dato l’annuncio ufficiale della sua costituzione, uno sparuto gruppo di quindici Häftlinge (1) si radunò intorno al nuovo Kapo (2), in piazza dell’Appello, nel grigiore dell’alba.
Fu la prima delusione: era ancora un «triangolo verde», un delinquente professionale, l’Arbeitsdienst (3) non aveva giudicato necessario che il Kapo del Kommando Chimico fosse un chimico. Inutile sprecare il fiato a fargli domande, non avrebbe risposto, o risposto a urli e pedate. Peraltro rassicurava il suo aspetto non troppo robusto e la statura inferiore alla media.
Fece un breve discorso in sguaiato tedesco da caserma, e la delusione fu confermata. Quelli erano dunque i chimici: bene, lui era Alex, e se loro pensavano di essere entrati in paradiso sbagliavano. In primo luogo, fino al giorno dell’inizio della produzione il Kommando 98 non sarebbe stato che un comune Kommandotrasporti addetto al magazzino del Cloruro di Magnesio. Poi, se credevano, per essere degli Intelligenten, degli intellettuali, di farsi gioco di lui, Alex, un Reichsdeutscher (4), ebbene, Herrgottsacrament (5), gli avrebbe fatto vedere lui, gli avrebbe... (e, il pugno chiuso e l’indice teso, tagliava l’aria di traverso nel gesto di minaccia dei tedeschi); e finalmente, non dovevano pensare di ingannare nessuno, se qualcuno si era presentato come chimico senza esserlo; un esame, sissignori, in uno dei prossimi giorni; un esame di chimica, davanti al triumvirato del Reparto Polimerizzazione: il Doktor Hagen, il Doktor Probst, il Doktor Ingenieur Pannwitz.
Col che, meine Herren (6), si era già perso abbastanza tempo, i Kommandos 96 e 97 si erano già avviati, avanti marsch, e, per cominciare, chi non avesse camminato al passo e allineato avrebbe avuto a che fare con lui.
Era un Kapo come tutti gli altri Kapos.

Uscendo dal Lager, davanti alla banda musicale e al posto di conta delle SS, si marcia per cinque, col berretto in mano, le braccia immobili lungo i fianchi e il collo rigido, e non si deve parlare. Poi ci si mette per tre, e allora si può tentare di scambiare qualche parola attraverso l’acciottolio (7) delle diecimila paia di zoccoli di legno.
Chi sono questi miei compagni chimici? Vicino a me cammina Alberto, è studente del terzo anno, anche questa volta siamo riusciti a non separarci. Il terzo alla mia sinistra non l’ho mai visto, sembra molto giovane, è pallido come la cera, ha il numero degli olandesi (8). Anche le tre schiene davanti a me sono nuove. Indietro è pericoloso voltarsi, potrei perdere il passo o inciampare; pure provo per un attimo, ho visto la faccia di Iss Clausner.
Finché si cammina non c’è tempo di pensare, bisogna badare di non togliere gli zoccoli a quello che zoppica davanti e di non farseli togliere da quello che zoppica dietro; ogni tanto c’è un cavo da scavalcare, una pozzanghera viscida da evitare. So dove siamo, di qui sono già passato col mio Kommando precedente, è la H-Strasse, la strada dei magazzini. Lo dico ad Alberto: si va veramente al Cloruro di Magnesio, almeno questa non è stata una storia.
Siamo arrivati, scendiamo in un vasto interrato umido e pieno di correnti d’aria; è questa la sede del Kommando, quella che qui si chiama Bude. Il Kapo ci divide in tre squadre; quattro a scaricare i sacchi dal vagone, sette a trasportarli giù, quattro a impilarli nel magazzino. Questi siamo io con Alberto, Iss e l’olandese.
Finalmente si può parlare, e a ciascuno di noi quello che Alex ha detto sembra il sogno di un pazzo.
Con queste nostre facce vuote, con questi crani tosati, con questi abiti di vergogna, fare un esame di chimica. E sarà in tedesco, evidentemente; e dovremo comparire davanti a un qualche biondo Ario Doktor (9) sperando che non dovremo soffiarci il naso, perché forse lui non saprà che noi non possediamo fazzoletto, e non si potrà certo spiegarglielo. E avremo addosso la nostra vecchia compagna fame, e stenteremo a stare immobili sulle ginocchia, e lui sentirà certamente questo nostro odore, a cui ora siamo avvezzi, ma che ci perseguitava i primi giorni: l’odore delle rape e dei cavoli crudi cotti e digeriti.
Così è, conferma Clausner. Hanno dunque i tedeschi tanto bisogno di chimici? O è un nuovo trucco, una nuova macchina «pour faire chier les Juifs?» (10). Si rendono conto della prova grottesca e assurda che ci viene richiesta, a noi non più vivi, noi già per metà dementi nella squallida attesa del niente?
Clausner mi mostra il fondo della sua gamella. Là dove gli altri incidono il loro numero, e Alberto ed io abbiamo inciso il nostro nome, Clausner ha scritto: «Ne pas chercher à comprendre» (11).
Benché noi ci pensiamo non più di qualche minuto al giorno, e anche allora in uno strano modo staccato ed esterno, noi sappiamo bene che finiremo in selezione. Io so che non sono della stoffa di quelli che resistono, sono troppo civile, penso ancora troppo, mi consumo al lavoro. Ed ora so anche che mi salverò se diventerò Specialista, e diventerò Specialista se supererò un esame di chimica.
Oggi, questo vero oggi in cui io sto seduto a un tavolo e scrivo, io stesso non sono convinto che queste cose sono realmente accadute.

Passarono tre giorni, tre dei soliti immemorabili giorni, così lunghi mentre passavano e così brevi dopo che erano passati, e già tutti si erano stancati di credere all’esame di chimica.
Il Kommando era ridotto a dodici uomini: tre erano scomparsi nel modo consueto di laggiù, forse nella baracca accanto, forse cancellati dal mondo. Dei dodici, cinque non erano chimici; tutti e cinque avevano subito chiesto ad Alex di ritornare ai loro precedenti Kommandos. Non evitarono le percosse, ma inaspettatamente e da chissà quale autorità, fu deciso che rimanessero, aggregati come ausiliari al Kommando Chimico.
Venne Alex nella cantina del Cloromagnesio e chiamò fuori noi sette, per andare a sostenere l’esame. Ecco noi, come sette goffi pulcini dietro la chioccia, seguire Alex su per la scaletta del Polymerisations-Büro. Siamo sul pianerottolo, una targhetta sulla porta con i tre nomi famosi. Alex bussa rispettosamente, si cava il berretto, entra; si sente una voce pacata; Alex riesce: - Ruhe, ietzt. Warten -. Aspettare in silenzio.
Di questo siamo contenti. Quando si aspetta, il tempo cammina liscio senza che si debba intervenire per cacciarlo avanti, mentre invece quando si lavora ogni minuto ci percorre faticosamente e deve venire laboriosamente espulso. Noi siamo sempre contenti di aspettare, siamo capaci di aspettare per ore con la completa ottusa inerzia dei ragni nelle vecchie tele.
Alex è nervoso, passeggia su e giù, e noi ogni volta ci scostiamo al suo passaggio. Anche noi, ciascuno a suo modo, siamo inquieti; solo Mendi non lo è. Mendi è rabbino; è della Russia Subcarpatica, di quel groviglio di popoli in cui ciascuno parla almeno tre lingue, e Mendi ne parla sette. Sa moltissime cose, oltre che rabbino è sionista (12) militante, glottologo, è stato partigiano ed è dottore in legge; non è chimico ma vuol tentare ugualmente, è un piccolo uomo tenace, coraggioso e acuto.
Bálla ha una matita e tutti gli stanno addosso. Non siamo sicuri se saremo ancora capaci di scrivere, vorremmo provare.
Kohlenwasserstoffe, Massenwirkungsgesetz (13). Mi affiorano i nomi tedeschi dei composti e delle leggi: provo gratitudine verso il mio cervello, non mi sono più occupato molto di lui eppure mi serve ancora così bene.
Ecco Alex. Io sono un chimico: che ho a che fare con questo Alex? Si pianta sui piedi davanti a me, mi riassetta ruvidamente il colletto della giacca, mi cava il berretto e me lo ricalca in capo, poi fa un passo indietro, squadra il risultato con aria disgustata e volta le spalle bofonchiando: - Was für ein Muselmann Zugang! - che nuovo acquisto scalcinato!
La porta si è aperta. I tre dottori hanno deciso che sei candidati passeranno in mattinata. Il settimo no. Il settimo sono io, ho il numero di matricola più elevato, mi tocca ritornare al lavoro. Solo nel pomeriggio viene Alex a prelevarmi; che disdetta, non potrò neppure comunicare cogli altri per sapere «che domande fanno».
Questa volta ci siamo proprio. Per le scale, Alex mi guarda torvo, si sente in qualche modo responsabile del mio aspetto miserevole. Mi vuol male perché sono italiano, perché sono ebreo e perché, fra tutti, sono quello che più si scosta dal suo caporalesco ideale virile. Per analogia, pur senza capirne nulla, e di questa sua incompetenza essendo fiero, ostenta una profonda sfiducia nelle mie probabilità per l’esame.
Siamo entrati. C’è solo il Doktor Pannwitz, Alex, col berretto in mano, gli parla a mezza voce: -...un italiano, in Lager da tre mesi soltanto, già mezzo kaputt......Er sagt er ist Chemiker... (14) - ma lui Alex sembra su questo faccia le sue riserve.
Alex viene brevemente congedato e relegato da parte, ed io mi sento come Edipo davanti alla Sfinge (15). Le mie idee sono chiare, e mi rendo conto anche in questo momento che la posta in gioco è grossa; eppure provo un folle impulso a scomparire, a sottrarmi alla prova.
Pannwitz è alto, magro, biondo; ha gli occhi, i capelli e il naso come tutti i tedeschi devono averli, e siede formidabilmente dietro una complicata scrivania. Io, Häftling 174 517, sto in piedi nel suo studio che è un vero studio, lucido pulito e ordinato, e mi pare che lascerei una macchia sporca dovunque dovessi toccare.
Quando ebbe finito di scrivere, alzò gli occhi e mi guardò.
Da quel giorno, io ho pensato al Doktor Pannwitz molte volte e in molti modi. Mi sono domandato quale fosse il suo intimo funzionamento di uomo; come riempisse il suo tempo, all’infuori della Polimerizzazione e della coscienza indogermanica (16); soprattutto, quando io sono stato di nuovo un uomo libero, ho desiderato di incontrarlo ancora, e non già per vendetta, ma solo per una mia curiosità dell’anima umana.
Perché quello sguardo non corse fra due uomini; e se io sapessi spiegare a fondo la natura di quello sguardo, scambiato come attraverso la parete di vetro di un acquario tra due esseri che abitano mezzi diversi, avrei anche spiegato l’essenza della grande follia della terza Germania.
Quello che tutti noi dei tedeschi pensavamo e dicevamo si percepì in quel momento in modo immediato. Il cervello che sovrintendeva a quegli occhi azzurri e a quelle mani coltivate diceva: «Questo qualcosa davanti a me appartiene a un genere che è ovviamente opportuno sopprimere. Nel caso particolare, occorre prima accertarsi che non contenga qualche elemento utilizzabile». E nel mio capo, come semi in una zucca vuota: «Gli occhi azzurri e i capelli biondi sono essenzialmente malvagi. Nessuna comunicazione possibile. Sono specializzato in chimica mineraria. Sono specializzato in sintesi organiche. Sono specializzato...».
Ed incominciò l’interrogatorio, mentre nel suo angolo sbadigliava e digrignava Alex, terzo esemplare zoologico.
- Wo sind Sie geboren? (17) - mi dà del Sie, del lei: il Doktor Ingenieur Pannwitz non ha il senso dell’umorismo. Che sia maledetto, non fa il minimo sforzo per parlare un tedesco un po’ comprensibile.
- Mi sono laureato a Torino nel 1941, summa cum laude (18), - e, mentre lo dico, ho la precisa sensazione di non esser creduto, a dire il vero non ci credo io stesso, basta guardare le mie mani sporche e piagate, i pantaloni da forzato incrostati di fango. Eppure sono proprio io, il laureato di Torino, anzi, particolarmente in questo momento è impossibile dubitare della mia identità con lui, infatti il serbatoio dei ricordi di chimica organica, pur dopo la lunga inerzia, risponde alla richiesta con inaspettata docilità; e ancora, questa ebrietà lucida, questa esaltazione che mi sento calda per le vene, come la riconosco, è la febbre degli esami, la mia febbre dei miei esami, quella spontanea mobilitazione di tutte le facoltà logiche e di tutte le nozioni che i miei compagni di scuola tanto mi invidiavano.
L’esame sta andando bene. A mano a mano che me ne rendo conto, mi pare di crescere di statura. Ora mi chiede su quale argomento ho fatto la tesi di laurea. Devo fare uno sforzo violento per suscitare queste sequenze di ricordi così profondamente lontane: è come se cercassi di ricordare gli avvenimenti di una incarnazione anteriore.
Qualcosa mi protegge. Le mie povere vecchie Misure di costanti dielettriche interessano particolarmente questo ariano biondo dalla esistenza sicura: mi chiede se so l’inglese, mi mostra il testo del Gattermann, e anche questo è assurdo e inverosimile, che quaggiù, dall’altra parte del filo spinato, esista un Gattermann in tutto identico a quello su cui studiavo in Italia, in quarto anno, a casa mia.
Adesso è finito: l’eccitazione che mi ha sostenuto lungo tutta la prova cede d’un tratto ed io contemplo istupidito e atono la mano di pelle bionda che, in segni incomprensibili, scrive il mio destino sulla pagina bianca.
- Los, ab! (19) - Alex rientra in scena, io sono di nuovo sotto la sua giurisdizione. Saluta Pannwitz sbattendo i tacchi, e ne ottiene in cambio un lievissimo cenno delle palpebre. Io brancolo per un attimo nella ricerca di una formula di congedo appropriata: invano, in tedesco so dire mangiare, lavorare, rubare, morire; so anche dire acido solforico, pressione atmosferica e generatore di onde corte, ma non so proprio come si può salutare una persona di riguardo.
Eccoci di nuovo per le scale. Alex vola gli scalini: ha le scarpe di cuoio perché non è ebreo, è leggero sui piedi come i diavoli di Malebolge (20). Si volge dal basso a guardarmi torvo, mentre io discendo impacciato e rumoroso nei miei zoccoli spaiati ed enormi, aggrappandomi alla ringhiera come un vecchio.
Pare che sia andata bene, ma sarebbe insensato farci conto. Conosco già abbastanza il Lager per sapere che non si devono mai fare previsioni, specie se ottimistiche. Quello che è certo, è che ho passato una giornata senza lavorare, e quindi stanotte avrò un po’ meno fame, e questo è un vantaggio concreto e acquisito.
Per rientrare alla Bude, bisogna attraversare uno spiazzo ingombro di travi e di tralicci metallici accatastati. Il cavo d’acciaio di un argano taglia la strada, Alex lo afferra per scavalcarlo, Donnerwetter (21), ecco si guarda la mano nera di grasso viscido. Frattanto io l’ho raggiunto: senza odio e senza scherno, Alex strofina la mano sulla mia spalla, il palmo e il dorso, per nettarla, e sarebbe assai stupito, l’innocente bruto Alex, se qualcuno gli dicesse che alla stregua di questo suo atto io oggi lo giudico, lui e Pannwitz e gli innumerevoli che furono come lui, grandi e piccoli, in Auschwitz e ovunque.

(1) Häftlinge = detenuti.
(2) Kapo = prigioniero che in un lager aveva il compito di comandare sugli altri detenuti.
(3) Arbeitsdienst = ufficio del lavoro.
(4) Reichsdeutscher = tedesco del Reich (qui nel senso di “tedesco ariano”).
(5) Herrgottsacrament = imprecazione, che in italiano potrebbe corrispondere a “Cristo santo”.
(6) Meine Herren = miei signori.
(7) Acciottolio = rumore degli zoccoli sui ciottoli
(8) Cioè il numero con cui erano stati marchiati i prigionieri olandesi arrivati tutti assieme.
(9) Ario Doktor = dottore (laureato) ariano.
(10) «pour faire chier les Juifs?» = per far cacare gli ebrei?
(11) «Ne pas chercher à comprendre» = non cercare di capire.
(12) Sionista = Seguace del sionismo, un movimento politico-religioso che voleva ricostituire in Palestina uno stato per gli ebrei.
(13) Kohlenwasserstoffe, Massenwirkungsgesetz = idrocarburi, legge di azione di massa.
(14) Er sagt er ist Chemiker = dice di essere un chimico.
(15) Edipo davanti alla Sfinge = la Sfinge era un mostro che proponeva ai passanti un indovinello; chi non sapeva rispondere veniva divorato. Edipo, in realtà, riuscì a rispondere, quindi l’autore intende dire che, più che un esame, stava affrontando un indovinello, qualcosa di assai difficile.
(16) Coscienza indogermanica = consapevolezza di essere un indoeuropeo di pura razza ariana, secondo le assurde idee hitleriane.
(17) Wo sind Sie geboren? = Dove è nato?
(18) Summa cum laude = con lode, con il massimo dei voti.
(19) Los, ab! = Finito, via!
(20) Malebolge = il nome dell’ottavo cerchio dell’Inferno nella Divina commedia dantesca.
(21) Donnerwetter = accidenti!


Calzature di prigionieri conservate ad Auschwitz








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