Quarto capitolo di “Se questo è un uomo”: Primo Levi è al
lavoro nel Lager, schiavo tra schiavi. Una brutta caduta lo costringe ad andare
al Krankenbau (Ka-Be), l’infermeria, dove vigono regole assurde, come nel resto
del campo, e dove la vita, momentaneamente più rilassata, fa affiorare i
ricordi dolorosi della vita di prima.
KA-BE
I giorni si somigliano tutti, e
non è facile contarli. Da non so quanti giorni facciamo la spola, a coppie,
dalla ferrovia al magazzino: un centinaio di metri di suolo in disgelo. Avanti
sotto il carico, indietro colle braccia pendenti lungo i fianchi, senza
parlare.
Intorno, tutto ci è nemico. Sopra
di noi, si rincorrono le nuvole maligne, per separarci dal sole; da ogni parte
ci stringe lo squallore del ferro in travaglio. I suoi confini non li abbiamo
mai visti, ma sentiamo, tutto intorno, la presenza cattiva del filo spinato che
ci segrega dal mondo. E sulle impalcature, sui treni in manovra, nelle strade,
negli scavi, negli uffici, uomini e uomini, schiavi e padroni, i padroni
schiavi essi stessi; la paura muove gli uni e l’odio gli altri, ogni altra
forza tace. Tutti ci sono nemici o rivali.
No, in verità, in questo mio
compagno di oggi, aggiogato oggi con me sotto lo stesso carico, non sento un
nemico né un rivale.
È Null Achtzehn. Non si chiama altrimenti che così,
Zero Diciotto, le ultime tre cifre del suo numero di matricola: come se ognuno
si fosse reso conto che solo un uomo è degno di avere un nome, e che Null
Achtzehn non è più un uomo. Credo che lui stesso abbia dimenticato il suo nome,
certo si comporta come se così fosse. Quando parla, quando guarda, dà
l’impressione di essere vuoto interiormente, nulla più che un involucro, come
certe spoglie di insetti che si trovano in riva agli stagni, attaccate con un
filo ai sassi, e il vento le scuote.
Null Achtzehn è molto giovane, il
che costituisce un pericolo grave. Non solo perché i ragazzi sopportano peggio
degli adulti le fatiche e il digiuno, ma soprattutto perché qui, per
sopravvivere, occorre un lungo allenamento alla lotta di ciascuno contro tutti,
che i giovani raramente posseggono. Null Achtzehn non è neppure particolarmente
indebolito, ma tutti rifuggono dal lavorare con lui. Tutto gli è a tal segno
indifferente che non si cura più di evitare la fatica e le percosse e di
cercare il cibo. Eseguisce tutti gli ordini che riceve, ed è prevedibile che,
quando lo manderanno alla morte, ci andrà con questa stessa totale indifferenza.
Non possiede la rudimentale
astuzia dei cavalli da traino, che smettono di tirare un po’ prima di giungere
all’esaurimento: ma tira o porta o spinge finché le forze glielo permettono,
poi cede di schianto, senza una parola di avvertimento, senza sollevare dal
suolo gli occhi tristi e opachi. Mi ricorda i cani da slitta dei libri di
London, che faticano fino all’ultimo respiro e muoiono sulla pista.
Ora, poiché noi tutti cerchiamo
invece con ogni mezzo di sottrarci alla fatica, Null Achtzehn è quello che
lavora più di tutti. Per questo, e perché è un compagno pericoloso, nessuno
vuol lavorare con lui; e siccome d’altronde nessuno vuol lavorare con me,
perché sono debole e maldestro, così spesso accade che ci troviamo accoppiati.
Mentre, a mani vuote, ancora una
volta torniamo strascicando i piedi dal magazzino, una locomotiva fischia breve
e ci taglia la strada. Contenti della interruzione forzata, Null Achtzehn ed io
ci fermiamo: curvi e laceri, aspettiamo che i vagoni abbiano finito di sfilarci
lentamente davanti.
… Deutsche Reichsbahn. Deutsche
Reichsbahn. SNCF (1). Due giganteschi vagoni russi, con la falce e il martello
mal cancellati. Deutsche Reichsbahn. Poi, Cavalli 8, Uomini 40, Tara, Portata:
un vagone italiano. .... Salirvi dentro, in un angolo, ben nascosto sotto il
carbone, e stare fermo e zitto, al buio, ad ascoltare senza fine il ritmo delle
rotaie, più forte della fame e della stanchezza; finché, a un certo momento, il
treno si fermerebbe, e sentirei l’aria tiepida e odore di fieno, e potrei
uscire fuori, nel sole: allora mi coricherei a terra, a baciare la terra, come
si legge nei libri: col viso nell’erba. E passerebbe una donna, e mi
chiederebbe «Chi sei?» in italiano, e io le racconterei, in italiano, e lei
capirebbe, e mi darebbe da mangiare e da dormire. E non crederebbe alle cose
che io dico, e io le farei vedere il numero che ho sul braccio, e allora
crederebbe...
... È finito. L’ultimo vagone è
passato, e, come al sollevarsi di un sipario, ci sta davanti agli occhi la
catasta dei supporti di ghisa, il Kapo in piedi sulla catasta con una verga in
mano, i compagni sparuti, a coppie, che vengono e vanno.
Guai a sognare: il momento di
coscienza che accompagna il risveglio è la sofferenza più acuta. Ma non ci
capita sovente, e non sono lunghi sogni: noi non siamo che bestie stanche.
Ancora una volta siamo ai piedi
della catasta. Mischa e il Galiziano alzano un supporto e ce lo posano con malgarbo
sulle spalle. Il loro posto è il meno faticoso, perciò essi fanno sfoggio di
zelo per conservarlo: chiamano i compagni che indugiano, incitano, esortano,
impongono al lavoro un ritmo insostenibile. Questo mi riempie di sdegno, pure
già so ormai che è nel normale ordine delle cose che i privilegiati opprimano i
non privilegiati: su questa legge umana si regge la struttura sociale del
campo.
Questa volta tocca a me camminare
davanti. Il supporto è pesante ma molto corto, per cui a ogni passo sento,
dietro di me, i piedi di Null Achtzehn che incespicano contro i miei, poiché
egli non è capace, o non si cura, di seguire il mio passo.
Venti passi, siamo arrivati al
binario, c’è un cavo da scavalcare. Il carico è mal messo, qualcosa non va,
tende a scivolare dalla spalla. Cinquanta passi, sessanta. La porta del
magazzino; ancora altrettanto cammino e lo deporremo. Basta, è impossibile
andare oltre, il carico mi grava ormai interamente sul braccio; non posso
sopportare più a lungo il dolore e la fatica, grido, cerco di voltarmi: appena
in tempo per vedere Null Achtzehn inciampare e buttare tutto.
Se avessi avuto la mia agilità di
un tempo, avrei potuto balzare indietro: invece eccomi a terra, con tutti i
muscoli contratti, il piede colpito stretto fra le mani, cieco di dolore. Lo
spigolo di ghisa mi ha colpito di taglio il dorso del piede sinistro.
Per un minuto, tutto si annulla
nella vertigine della sofferenza. Quando mi posso guardare attorno, Null
Achtzehn è ancora là in piedi, non si è mosso, colle mani infilate nelle
maniche, senza dire una parola, mi guarda senza espressione. Arrivano Mischa e
il Galiziano, parlano fra di loro in yiddisch (2), mi dànno non so che
consigli. Arrivano Templer e David e tutti gli altri: approfittano del
diversivo per sospendere il lavoro. Arriva il Kapo, distribuisce pedate, pugni
e improperi, i compagni si disperdono come pula al vento; Null Achtzehn si
porta una mano al naso e se la guarda àtono sporca di sangue. A me non toccano
che due schiaffi al capo, di quelli che non fanno male perché stordiscono.
L’incidente è chiuso. Constato
che, bene o male, mi posso reggere in piedi, l’osso non deve essere rotto. Non
oso togliere la scarpa per paura di risvegliare il dolore, e anche perché so
che poi il piede gonfierà e non potrò più rimetterla.
Il Kapo mi manda a sostituire il
Galiziano alla catasta, e questi, guardandomi torvo, va a prendere il suo posto
accanto a Null Achtzehn; ma ormai già passano i prigionieri inglesi, sarà
presto ora di rientrare al campo.
Durante la marcia faccio del mio
meglio per camminare svelto, ma non riesco a tenere il passo; il Kapo designa
Null Achtzehn e Finder perché mi sostengano fino al passaggio davanti alle SS,
e finalmente (fortunatamente stasera non c’è appello) sono in baracca e mi
posso buttare sulla cuccetta e respirare.
Forse è il calore, forse la
fatica della marcia, ma il dolore si è risvegliato, assieme a una strana
sensazione di umidità al piede ferito. Tolgo la scarpa: è piena di sangue,
ormai rappreso e impastato con il fango e coi brandelli del cencio che ho
trovato un mese fa e che adopero come pezza da piedi, un giorno a destra, un
giorno a sinistra.
Stasera, subito dopo la zuppa,
andrò in Ka-Be.
Ka-Be è abbreviazione di
Krankenbau, l’infermeria. Sono otto baracche, simili in tutto alle altre del
campo, ma separate da un reticolato. Contengono permanentemente un decimo della
popolazione del campo, ma pochi vi soggiornano più di due settimane e nessuno
più di due mesi: entro questi termini siamo tenuti a morire o a guarire. Chi ha
tendenza alla guarigione, in Ka-Be viene curato; chi ha tendenza ad aggravarsi,
dal Ka-Be viene mandato alle camere a gas.
Tutto questo perché noi, per
nostra fortuna, apparteniamo alla categoria degli «ebrei economicamente utili».
Al Ka-Be non sono mai stato,
neppure all’Ambulatorio, e tutto qui è nuovo per me.
Gli ambulatori sono due, Medico e
Chirurgico. Davanti alla porta, nella notte e nel vento, stanno due lunghe file
di ombre. Alcuni hanno bisogno solo di un bendaggio o di qualche pillola, altri
chiedono visita; qualcuno ha la morte in viso. I primi delle due file già sono
scalzi e pronti a entrare; gli altri, a mano a mano che il loro turno di
ingresso si avvicina, si ingegnano, in mezzo alla ressa, di sciogliere i legacci
di fortuna e i fili di ferro delle calzature, e di svolgere, senza lacerarle,
le preziose pezze da piedi; non troppo presto, per non stare inutilmente nel
fango a piedi nudi; non troppo tardi, per non perdere il turno d’ingresso:
poiché entrare in Ka-Be con le scarpe è rigorosamente proibito. Chi fa
rispettare il divieto è un gigantesco Häftling francese, il quale risiede nella
guardiola che sta fra le porte dei due ambulatori. È uno dei pochi funzionari
francesi del campo: né si pensi che il passare la propria giornata fra le
scarpe fangose e sbrindellate costituisca un piccolo privilegio. Basta pensare
a quanti entrano in Ka-Be colle scarpe, e ne escono senza averne più bisogno...
Quando arriva la mia volta,
riesco miracolosamente a togliermi scarpe e stracci senza perdere gli uni né le
altre, senza farmi rubare la gamella né i guanti, e senza perdere l’equilibrio,
pur stringendo sempre in mano il berretto, che per nessuna ragione si può
tenere in capo quando si entra nelle baracche.
Lascio le scarpe al deposito e
ritiro lo scontrino relativo, dopo di che, scalzo e zoppicante, le mani
impedite da tutte le povere mie cose che non posso lasciare da nessuna parte,
sono ammesso all’interno e mi accodo a una nuova fila che fa capo alla sala
delle visite.
In questa fila ci si spoglia
progressivamente, e quando si arriva verso la testa, bisogna essere nudi perché
un infermiere ci infila il termometro sotto l’ascella; se qualcuno è vestito,
perde il turno e ritorna ad accodarsi. Tutti devono ricevere il termometro,
anche se hanno soltanto la scabbia o il mal di denti.
In questo modo si è sicuri che
chi non è seriamente malato non si sobbarcherà per capriccio a questo
complicato rituale.
Arriva finalmente la mia volta:
sono ammesso davanti al medico, l’infermiere mi toglie il termometro e mi
annuncia: - Nummer 174 517, kein Fieber (3) -. Per me non occorre una visita a
fondo: sono immediatamente dichiarato Arztvormelder, che cosa voglia dire non
so, non è certo questo il posto di domandare spiegazioni. Mi trovo espulso,
ricupero le scarpe e ritorno in baracca.
Chajim si felicita con me: ho una
buona ferita, non pare pericolosa e mi garantisce un discreto periodo di
riposo. Passerò la notte in baracca con gli altri, ma domani mattina, invece di
andare al lavoro, mi debbo ripresentare ai medici per la visita definitiva:
questo vuol dire Arztvormelder. Chajim è pratico di queste cose, e pensa che
probabilmente domani verrò ammesso al Ka-Be. Chajim è il mio compagno di letto,
ed io ho in lui una fiducia cieca. È un polacco, ebreo pio, studioso della
Legge. Ha press’a poco la mia età, è di mestiere orologiaio, e qui in Buna fa
il meccanico di precisione; è perciò fra i pochi che conservino la dignità e la
sicurezza di sé che nascono dall’esercitare un’arte per cui si è preparati.
Così è stato. Dopo la sveglia e
il pane, mi hanno chiamato fuori con altri tre della mia baracca. Ci hanno
portati in un angolo della piazza dell’Appello, dove c’era una lunga fila,
tutti gli Arztvormelder di oggi; è venuto un tale e mi ha portato via gamella
cucchiaio berretto e guanti. Gli altri hanno riso, non sapevo che dovevo
nasconderli o affidarli a qualcuno, o meglio che tutto venderli, e che in Ka-Be
non si possono portare? Poi guardano il mio numero e scuotono il capo: da uno
che ha un numero così alto ci si può aspettare qualunque sciocchezza.
Poi ci hanno contati, ci hanno
fatti spogliare fuori al freddo, ci hanno tolto le scarpe, ci hanno di nuovo
contati, ci hanno rasa la barba i capelli e i peli, ci hanno contati ancora, e
ci hanno fatto fare una doccia; poi è venuta una SS, ci ha guardati senza
interesse, si è soffermata davanti a uno che ha un grosso idrocele (4), e lo ha
fatto mettere da parte. Dopo di che ci hanno contati ancora una volta e ci
hanno fatto fare un’altra doccia, benché fossimo ancora bagnati della prima e
alcuni tremassero di febbre.
Ora siamo pronti per la visita
definitiva. Fuori dalla finestra si vede il cielo bianco, e qualche volta il
sole; in questo paese lo si può guardare fisso, attraverso le nuvole, come
attraverso un vetro affumicato. A giudicare dalla sua posizione, debbono essere
le quattordici passate: addio zuppa ormai, e siamo in piedi da dieci ore e nudi
da sei.
Anche questa seconda visita
medica è straordinariamente rapida: il medico (ha il vestito a righe come noi,
ma sopra indossa un camice bianco, ed ha il numero cucito sul camice, ed è
molto più grasso di noi) guarda e palpa il mio piede gonfio e sanguinante, al
che io grido di dolore, poi dice: - Aufgenommen (5), Block 23 -. Io resto lì a
bocca aperta, in attesa di qualche altra indicazione, ma qualcuno mi tira
brutalmente indietro, mi getta un mantello sulle spalle nude, mi porge un paio
di sandali e mi caccia all’aperto.
A un centinaio di metri c’è il
Block 23; sopra c’è scritto «Schonungsblock (6)»: chissà cosa vorrà dire?
Dentro, mi tolgono mantello e sandali, e io mi trovo ancora una volta nudo e
ultimo di una fila di scheletri nudi: i ricoverati di oggi.
Da molto tempo ho smesso di
cercare di capire. Per quanto mi riguarda, sono ormai così stanco di reggermi
sul piede ferito e non ancora medicato, così affamato e pieno di freddo, che
nulla più mi interessa. Questo può benissimo essere l’ultimo dei miei giorni, e
questa camera la camera dei gas di cui tutti parlano, che ci potrei fare? Tanto
vale appoggiarsi al muro e chiudere gli occhi e aspettare.
Il mio vicino non deve essere
ebreo. Non è circonciso (7), e poi (questa è una delle poche cose che ho
imparato finora) una pelle così bionda, un viso e una corporatura così massicci
sono caratteristici dei polacchi non ebrei. È più alto di me di tutta la testa,
ma ha una fisionomia abbastanza cordiale, come l’hanno solo coloro che non
soffrono la fame.
Ho provato a chiedergli se sa
quando ci faranno entrare. Lui si è voltato all’infermiere, che gli somiglia
come un gemello e sta in un angolo a fumare; hanno parlato e riso insieme senza
rispondere, come se io non ci fossi: poi uno di loro mi ha preso il braccio e
ha guardato il numero, e allora hanno riso più forte. Tutti sanno che i
centosettantaquattromila sono gli ebrei italiani: i ben noti ebrei italiani, arrivati
due mesi fa, tutti avvocati, tutti dottori, erano più di cento e già non sono
che quaranta, quelli che non sanno lavorare e si lasciano rubare il pane e
prendono schiaffi dal mattino alla sera; i tedeschi li chiamano « zwei linke
Hände» (due mani sinistre), e perfino gli ebrei polacchi li disprezzano perché
non sanno parlare yiddisch.
L’infermiere indica all’altro le
mie costole, come se io fossi un cadavere in sala anatomica; accenna alle
palpebre e alle guance gonfie e al collo sottile, si curva e preme coll’indice
sulla mia tibia e fa notare all’altro la profonda incavatura che il dito lascia
nella carne pallida, come nella cera.
Vorrei non aver mai rivolto la
parola al polacco: mi pare di non avere mai, in tutta la mia vita, subito un
affronto più atroce di questo. L’infermiere intanto pare abbia finito la sua
dimostrazione, nella sua lingua che io non capisco e che mi suona terribile; si
rivolge a me, e in quasi-tedesco, caritatevolmente, me ne fornisce il
compendio: - Du Jude kaputt. Du schnell Krematorium fertig - (tu ebreo
spacciato, tu presto crematorio, finito).
Qualche altra ora è passata prima
che tutti i ricoverati venissero presi in forza, ricevessero la camicia e fosse
compilata la loro scheda. Io, come al solito, sono stato l’ultimo; un tale, col
vestito a rigoni nuovo fiammante, mi ha chiesto dove sono nato, che mestiere
facevo «da civile», se avevo figli, quali malattie ho avuto, una quantità di
domande, a che cosa possono mai servire, questa è una complicata messinscena
per farsi beffe di noi. Sarebbe questo l’ospedale? Ci fanno stare nudi in piedi
e ci fanno delle domande.
Finalmente anche per me si è
aperta la porta, e ho potuto entrare nel dormitorio.
Anche qui, come dappertutto,
cuccette a tre piani, in tre file per tutta la baracca, separate da due
corridoi strettissimi. Le cuccette sono centocinquanta, i malati circa
duecentocinquanta: due quindi in quasi tutte le cuccette. I malati delle
cuccette superiori, schiacciati contro il soffitto, non possono quasi stare
seduti; si sporgono curiosi a vedere i nuovi arrivati di oggi, è il momento più
interessante della giornata, si trova sempre qualche conoscente. Io sono stato
assegnato alla cuccetta 10; miracolo! è vuota. Mi distendo con delizia, è la
prima volta, da che sono in campo, che ho una cuccetta tutta per me. Nonostante
la fame, non passano dieci minuti che sono addormentato.
La vita del Ka-Be è vita di
limbo. I disagi materiali sono relativamente pochi, a parte la fame e le
sofferenze inerenti alle malattie. Non fa freddo, non si lavora, e, a meno di
commettere qualche grave mancanza, non si viene percossi.
La sveglia è alle quattro, anche
per i malati; bisogna rifare il letto e lavarsi, ma non c’è molta fretta né
molto rigore. Alle cinque e mezzo distribuiscono il pane, e si può tagliarlo
comodamente a fette sottili, e mangiare sdraiati con tutta calma; poi ci si può
riaddormentare, fino alla distribuzione del brodo di mezzogiorno. Fin verso le
sedici è Mittagsruhe, riposo pomeridiano; a quest’ora c’è sovente la visita
medica e la medicazione, bisogna scendere dalle cuccette, togliersi la camicia
e fare la fila davanti al medico. Anche il rancio serale viene distribuito nei
letti; dopo di che, alle ventuno, tutte le luci si spengono, tranne la
lampadina velata della guardia di notte, ed è il silenzio.
... E per la prima volta da che
sono in campo, la sveglia mi coglie nel sonno profondo, e il risveglio è un
ritorno dal nulla. Alla distribuzione del pane si sente lontano, fuori delle
finestre, nell’aria buia, la banda che incomincia a suonare: sono i compagni
sani che escono inquadrati al lavoro.
Dal Ka-Be la musica non si sente
bene: arriva assiduo e monotono il martellare della grancassa e dei piatti, ma
su questa trama le frasi musicali si disegnano solo a intervalli, col capriccio
del vento. Noi ci guardiamo l’un l’altro dai nostri letti, perché tutti
sentiamo che questa musica è infernale.
I motivi sono pochi, una dozzina,
ogni giorno gli stessi, mattina e sera: marce e canzoni popolari care a ogni
tedesco. Esse giacciono incise nelle nostre menti, saranno l’ultima cosa del
Lager che dimenticheremo: sono la voce del Lager, l’espressione sensibile della
sua follia geometrica, della risoluzione altrui di annullarci prima come uomini
per ucciderci poi lentamente.
Quando questa musica suona, noi
sappiamo che i compagni, fuori nella nebbia, partono in marcia come automi; le
loro anime sono morte e la musica li sospinge, come il vento le foglie secche,
e si sostituisce alla loro volontà. Non c’è più volontà: ogni pulsazione
diventa un passo, una contrazione riflessa dei muscoli sfatti. I tedeschi sono
riusciti a questo. Sono diecimila, e sono una sola grigia macchina; sono
esattamente determinati; non pensano e non vogliono, camminano.
Alla marcia di uscita e di
entrata non mancano mai le SS. Chi potrebbe negare loro il diritto di assistere
a questa coreografia da loro voluta, alla danza degli uomini spenti, squadra
dopo squadra, via dalla nebbia verso la nebbia? Quale prova più concreta della
loro vittoria?
Anche quelli del Ka-Be conoscono
questo uscire e rientrare dal lavoro, l’ipnosi del ritmo interminabile, che
uccide il pensiero e attutisce il dolore; l’hanno provato e lo riproveranno. Ma
bisognava uscire dall’incantamento, sentire la musica dal di fuori, come
accadeva in Ka-Be e come ora la ripensiamo, dopo la liberazione e la rinascita,
senza obbedirvi, senza subirla, per capire che cosa era; per capire per quale
meditata ragione i tedeschi avevano creato questo rito mostruoso, e perché,
oggi ancora, quando la memoria ci restituisce qualcuna di quelle innocenti
canzoni, il sangue ci si ferma nelle vene, e siamo consci che essere ritornati
da Auschwitz non è stata piccola ventura.
Ho due vicini di cuccetta.
Giacciono tutto il giorno e tutta la notte fianco a fianco, pelle contro pelle,
incrociati come i Pesci dello zodiaco, in modo che ciascuno ha i piedi
dell’altro accanto al capo.
Uno è Walter Bonn, un olandese
civile e abbastanza colto. Vede che non ho nulla per tagliare il pane, mi
impresta il suo coltello, poi si offre di vendermelo per mezza razione di pane.
Io discuto sul prezzo, indi rinuncio, penso che qui in Ka-Be ne troverò sempre
qualcuno in prestito, e fuori costano solo un terzo di razione. Non per questo
Walter vien meno alla sua cortesia, e a mezzogiorno, mangiata la sua zuppa,
forbisce colle labbra il cucchiaio (il che è buona norma prima di imprestarlo,
per ripulirlo e per non mandare sprecate le tracce di zuppa che vi aderiscono)
e me lo offre spontaneamente.
- Che malattia hai, Walter? -
«Körperschwäche», - deperimento organico. La peggiore malattia: non la si può
curare, ed è molto pericoloso entrare in Ka-Be con questa diagnosi. Se non
fosse stato dell’edema (8) alle caviglie (e me le mostra) che gli impedisce di
uscire al lavoro, si sarebbe ben guardato dal farsi ricoverare.
Su questo genere di pericoli io
ho ancora idee assai confuse. Tutti ne parlano indirettamente, per allusioni, e
quando io faccio qualche domanda mi guardano e tacciono.
È dunque vero quello che si sente dire, di selezioni,
di gas, di crematorio?
Crematorio. L’altro, il vicino di
Walter, si sveglia di soprassalto, si rizza a sedere: chi parla di crematorio?
Che avviene? Non si può lasciare in pace chi dorme? È un ebreo polacco, albino (9), dal viso scarno e
bonario, non più giovane. Si chiama Schmulek, è fabbro. Walter lo ragguaglia
brevemente.
Così, «der Italeyner» non crede
alle selezioni? Schmulek vorrebbe parlare tedesco ma parla yiddisch; lo capisco
a stento, solo perché lui vuole farsi capire. Fa tacere Walter con un cenno, ci
penserà lui a farmi persuaso:
- Mostrami il tuo numero: tu sei
il 174 517. Questa numerazione è incominciata diciotto mesi fa, e vale per
Auschwitz e per i campi dipendenti. Noi siamo ora diecimila qui a
Buna-Monowitz; forse trentamila fra Auschwitz e Birkenau. Wo sind die Andere? Dove
sono gli altri?
- Forse trasferiti in altri
campi...? - propongo io.
Schmulek crolla il capo, si
rivolge a Walter:
- Er will nix verstayen, - non
vuole capire.
Ma era destino che presto mi
inducessi a capire, e Schmulek stesso ne facesse le spese. A sera si è aperta
la porta della baracca, una voce ha gridato - Achtung!- e ogni rumore si è
spento e si è sentito un silenzio di piombo.
Sono entrate due SS (uno dei due
ha molti gradi, forse è un ufficiale?), si sentivano i loro passi nella baracca
come se fosse vuota; hanno parlato col medico capo, questi ha mostrato loro un
registro indicando qua e là. L’ufficiale ha preso nota su un libretto. Schmulek
mi tocca le ginocchia: - Pass’ auf, pass’ auf, - fa’ attenzione.
L’ufficiale, seguito dal medico,
gira in silenzio e con noncuranza fra le cuccette; ha in mano un frustino,
frusta un lembo di coperta che pende da una cuccetta alta, il malato si
precipita a riassettarla. L’ufficiale passa oltre.
Un altro ha il viso giallo;
l’ufficiale gli strappa via le coperte, quello trasalisce, l’ufficiale gli
palpa il ventre, dice: - Gut, gut (10), poi passa oltre.
Ecco, ha posato lo sguardo su
Schmulek; tira fuori il libretto, controlla il numero del letto e il numero del
tatuaggio. Io vedo tutto bene, dall’alto: ha fatto una crocetta accanto al
numero di Schmulek. Poi è passato oltre.
Io guardo ora Schmulek, e dietro
di lui ho visto gli occhi di Walter, e allora non ho fatto domande.
Il giorno dopo, invece del solito
gruppo di guariti, sono stati messi in uscita due gruppi distinti. I primi sono
stati rasi e tosati e hanno fatto la doccia. I secondi sono usciti così, con le
barbe lunghe e le medicazioni non rinnovate, senza doccia. Nessuno ha salutato
questi ultimi, nessuno li ha incaricati di messaggi per i compagni sani.
Di questi faceva parte Schmulek.
In questo modo discreto e
composto, senza apparato e senza collera, per le baracche del Ka-Be si aggira
ogni giorno la strage, e tocca questo o quello. Quando Schmulek è partito, mi
ha lasciato cucchiaio e coltello; Walter e io abbiamo evitato di guardarci e siamo
rimasti a lungo silenziosi. Poi Walter mi ha chiesto come posso conservare così
a lungo la mia razione di pane, e mi ha spiegato che lui di solito taglia la
sua per il lungo, in modo da avere fette più larghe su cui è più agevole
spalmare la margarina.
Walter mi spiega molte cose:
Schonungsblock vuol dire baracca di riposo, qui ci sono solo malati leggeri, o
convalescenti, o non bisognosi di cure. Fra questi, almeno una cinquantina di
dissenterici (11) più o meno gravi.
Costoro vengono controllati ogni
terzo giorno. Si mettono in fila lungo il corridoio; all’estremità stanno due
bacinelle di latta e l’infermiere, con registro, orologio e matita. A due per
volta, i malati si presentano, e devono dimostrare, sul posto e subito, che la
loro diarrea persiste; a tale scopo viene loro concesso un minuto esatto. Dopo
di che presentano il risultato all’infermiere, il quale osserva e giudica;
lavano rapidamente le bacinelle in una apposita tinozza, e subentrano i due
successivi.
Fra coloro che attendono, alcuni
si torcono nello spasimo di trattenere la preziosa testimonianza ancora venti,
ancora dieci minuti; altri, privi di risorse in quel momento, tendono vene e
muscoli nello sforzo opposto. L’infermiere assiste impassibile, mordicchiando
la matita, uno sguardo all’orologio, uno sguardo ai campioni che gli vengono
via via presentati. Nei casi dubbi, parte con la bacinella e va a sottoporla al
medico.
... Ho ricevuto una visita: è
Piero Sonnino, il romano. - Hai visto come l’ho buscherato? -: Piero ha una enterite
(12) assai leggera, è qui da venti giorni, e ci sta bene, si riposa e ingrassa,
se ne infischia delle selezioni e ha deciso di restare in Ka-Be fino alla fine
dell’inverno, a ogni costo. Il suo metodo consiste nel mettersi in fila dietro
a qualche dissenterico autentico, che offra garanzia di successo; quando viene
il suo turno gli domanda la sua collaborazione (da rimunerarsi con zuppa o
pane), e se quello ci sta, e l’infermiere ha un momento di disattenzione,
scambia le bacinelle in mezzo alla ressa e il colpo è fatto. Piero sa quello
che rischia, ma finora gli è sempre andata bene.
Ma la vita del Ka-Be non è
questa. Non sono gli attimi cruciali delle selezioni, non sono gli episodi
grotteschi dei controlli della diarrea e dei pidocchi, non sono neppure le
malattie.
Il Ka-Be è il Lager a meno del disagio
fisico. Perciò, chi ancora ha seme di coscienza, vi riprende coscienza; perciò,
nelle lunghissime giornate vuote, vi si parla di altro che di fame e di lavoro,
e ci accade di considerare che cosa ci hanno fatti diventare, quanto ci è stato
tolto, che cosa è questa vita. In questo Ka-Be, parentesi di relativa pace,
abbiamo imparato che la nostra personalità è fragile, è molto più in pericolo
che non la nostra vita; e i savi antichi, invece di ammonirci «ricordati che
devi morire», meglio avrebbero fatto a ricordarci questo maggior pericolo che
ci minaccia. Se dall’interno dei Lager un messaggio avesse potuto trapelare
agli uomini liberi, sarebbe stato questo: fate di non subire nelle vostre case
ciò che a noi viene inflitto qui.
Quando si lavora, si soffre e non
si ha tempo di pensare: le nostre case sono meno di un ricordo. Ma qui il tempo
è per noi: da cuccetta a cuccetta, nonostante il divieto, ci scambiamo visite,
e parliamo e parliamo. La baracca di legno, stipata di umanità dolente, è piena
di parole, di ricordi e di un altro dolore. «Heimweh» si chiama in tedesco
questo dolore; è una bella parola, vuol dire «dolore della casa».
Sappiamo donde veniamo: i ricordi
del mondo di fuori popolano i nostri sonni e le nostre veglie, ci accorgiamo
con stupore che nulla abbiamo dimenticato, ogni memoria evocata ci sorge
davanti dolorosamente nitida.
Ma dove andiamo non sappiamo.
Potremo forse sopravvivere alle malattie e sfuggire alle scelte, forse anche
resistere al lavoro e alla fame che ci consumano: e dopo? Qui, lontani momentaneamente
dalle bestemmie e dai colpi, possiamo rientrare in noi stessi e meditare, e
allora diventa chiaro che non ritorneremo. Noi abbiamo viaggiato fin qui nei
vagoni piombati; noi abbiamo visto partire verso il niente le nostre donne e i
nostri bambini; noi fatti schiavi abbiamo marciato cento volte avanti e
indietro alla fatica muta, spenti nell’anima prima che dalla morte anonima. Noi
non ritorneremo. Nessuno deve uscire di qui, che potrebbe portare al mondo,
insieme col segno impresso nella carne, la mala novella di quanto, ad
Auschwitz, è bastato animo all’uomo di fare dell’uomo.
(1) Davanti all’autore sfila un
treno con vagoni provenienti da paesi diversi: vagoni tedeschi, francesi e,
dopo, russi, italiani.
(2) Yiddisch = dialetto parlato
dalla maggioranza degli ebrei dell’Europa centro-orientale.
(3) Nummer 174 517, kein Fieber =
Numero 174 517, niente febbre.
(4) Idrocele = rigonfiamento dei
testicoli causato da siero, da liquido organico.
(5) Aufgenommen = Accolto.
(6) Schonungsblock = baracca di
convalescenza, o di riposo.
(7) Non è circonciso = non ha
subito la circoncisione, cioè l’asportazione chirurgica del prepuzio che ha un
carattere rituale presso gli ebrei (e i musulmani).
(8) Edema = gonfiore.
(9) Albino = persona affetta da
albinismo, un’anomalia congenita che porta ad avere capelli e peli molto chiari
o addirittura tutti bianchi.
(10) Gut = bene.
(11) Dissenterico = affetto da
dissenteria, cioè diarrea, a volte sanguinolenta.
(12) Enterite = infiammazione
dell’intestino.
Illustrazione di Jan Komski, un cattolico polacco che sopravvisse ai
lager, pur essendo entrato ad Auschwitz nel 1940; l’illustrazione è intitolata “Ecce
homo” e rappresenta un prigioniero che esce dal Ka-Be per tornare al lavoro
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