Nel terzo capitolo di “Se questo è un uomo” l’autore
descrive alcune circostanze della vita in lager (la condivisione di una
cuccetta con un altro, la distribuzione del pane, l’azione del lavarsi) e
impara che per restare vivi, bisogna opporsi al degrado fisico e morale cui il
campo di concentramento spinge i prigionieri.
INIZIAZIONE
Dopo i primi giorni di
capricciosi trasferimenti da blocco a blocco e da Kommando a Kommando, a sera
tarda, sono stato assegnato al Block 30, e mi viene indicata una cuccetta in
cui già dorme Diena. Diena si sveglia, e, benché esausto, mi fa posto e mi riceve
amichevolmente.
Io non ho sonno, o per meglio
dire il mio sonno è mascherato da uno stato di tensione e di ansia da cui non
sono ancora riuscito a liberarmi, e perciò parlo e parlo.
Ho troppe cose da chiedere. Ho
fame, e quando domani distribuiranno la zuppa, come farò a mangiarla senza
cucchiaio? e come si può avere un cucchiaio? e dove mi manderanno a lavorare?
Diena ne sa quanto me, naturalmente, e mi risponde con altre domande. Ma da
sopra, da sotto, da vicino, da lontano, da tutti gli angoli della baracca ormai
buia, voci assonnate e iraconde mi gridano: - Ruhe, Ruhe! (1)
Capisco che mi si impone il
silenzio, ma questa parola è per me nuova, e poiché non ne conosco il senso e
le implicazioni, la mia inquietudine cresce. La confusione delle lingue è una
componente fondamentale del modo di vivere di quaggiù; si è circondati da una
perpetua Babele, in cui tutti urlano ordini e minacce in lingue mai prima
udite, e guai a chi non afferra a volo. Qui nessuno ha tempo, nessuno ha
pazienza, nessuno ti dà ascolto; noi ultimi venuti ci raduniamo istintivamente
negli angoli, contro i muri, come fanno le pecore, per sentirci le spalle
materialmente coperte.
Rinuncio dunque a fare domande, e
in breve scivolo in un sonno amaro e teso. Ma non è riposo: mi sento minacciato,
insidiato, ad ogni istante sono pronto a contrarmi in uno spasimo di difesa.
Sogno, e mi pare di dormire su una strada, su un ponte, per traverso di una
porta per cui va e viene molta gente. Ed ecco giunge, ahi quanto presto, la
sveglia. L’intera baracca si squassa dalle fondamenta, le luci si accendono,
tutti intorno a me si agitano in una repentina attività frenetica: scuotono le
coperte suscitando nembi di polvere fetida, si vestono con fretta febbrile,
corrono fuori nel gelo dell’aria esterna vestiti a mezzo, si precipitano verso
le latrine e il lavatoio; molti, bestialmente, orinano correndo per risparmiare
tempo, perché entro cinque minuti inizia la distribuzione del pane, del
pane-Brot-Broit-chleb-pain-lechemkenyér (2), del sacro blocchetto grigio che
sembra gigantesco in mano del tuo vicino, e piccolo da piangere in mano tua. È
una allucinazione quotidiana, a cui si finisce col fare l’abitudine: ma nei
primi tempi è così irresistibile che molti fra noi, dopo lungo discutere a
coppie sulla propria palese e costante sfortuna, e sfacciata fortuna altrui, si
scambiano infine le razioni, al che l’illusione si ripristina invertita
lasciando tutti scontenti e frustrati.
Il pane è anche la nostra sola
moneta: nei pochi minuti che intercorrono fra la distribuzione e la
consumazione, il Block risuona di richiami, di liti e di fughe. Sono i
creditori di ieri che pretendono il pagamento, nei brevi istanti in cui il
debitore è solvibile. Dopo di che, subentra una relativa quiete, e molti ne
approfittano per recarsi nuovamente alle latrine a fumare mezza sigaretta, o al
lavatoio per lavarsi veramente.
Il lavatoio è un locale poco
invitante. È male illuminato, pieno di correnti d’aria, e il pavimento di
mattoni è coperto da uno strato di fanghiglia; l’acqua non è potabile, ha un
odore disgustoso e spesso manca per molte ore. Le pareti sono decorate da
curiosi affreschi didascalici: vi si vede ad esempio lo Häftling buono,
effigiato nudo fino alla cintola, in atto di insaponarsi diligentemente il
cranio ben tosato e roseo, e lo Häftling cattivo, dal naso fortemente semitico
e dal colorito verdastro, il quale, tutto infagottato negli abiti vistosamente
macchiati, e col berretto in testa, immerge cautamente un dito nell’acqua del
lavandino. Sotto al primo sta scritto: «So bist du rein» (così sei pulito), e
sotto al secondo: «So gehst du ein» (così vai in rovina); e più in basso, in
dubbio francese ma in caratteri gotici: «La propreté, c’est la sante» (3).
Sulla parete opposta campeggia un
enorme pidocchio bianco rosso e nero, con la scritta: «Eine Laus, dein Tod» (un
pidocchio è la tua morte), e il distico (4) ispirato:
Nach dem Abort, vor
dem Essen
Hände waschen, nicht
vergessen
(dopo la latrina, prima di
mangiare, lavati le mani, non dimenticare).
Per molte settimane, ho considerato
questi ammonimenti all’igiene come puri tratti di spirito teutonico, nello
stile del dialogo relativo al cinto erniario con cui eravamo stati accolti al
nostro ingresso in Lager. Ma ho poi capito che i loro ignoti autori, forse
inconsciamente, non erano lontani da alcune importanti verità. In questo luogo,
lavarsi tutti i giorni nell’acqua torbida del lavandino immondo è praticamente
inutile ai fini della pulizia e della salute; è invece importantissimo come
sintomo di residua vitalità, e necessario come strumento di sopravvivenza
morale.
Devo confessarlo: dopo una sola
settimana di prigionia, in me l’istinto della pulizia è sparito. Mi aggiro
ciondolando per il lavatoio, ed ecco Steinlauf, il mio amico quasi
cinquantenne, a torso nudo, che si strofina collo e spalle con scarso esito
(non ha sapone) ma con estrema energia. Steinlauf mi vede e mi saluta, e senza
ambagi mi domanda severamente perché non mi lavo. Perché dovrei lavarmi? Starei
forse meglio di quanto sto? Piacerei di più a qualcuno? Vivrei un giorno,
un’ora di più? Vivrei anzi di meno, perché lavarsi è un lavoro, uno spreco di
energia e di calore. Non sa Steinlauf che dopo mezz’ora ai sacchi di carbone
ogni differenza fra lui e me sarà scomparsa? Più ci penso, e più mi pare che
lavarsi la faccia nelle nostre condizioni sia una faccenda insulsa, addirittura
frivola: un’abitudine meccanica, o peggio, una lugubre ripetizione di un rito
estinto. Morremo tutti, stiamo per morire: se mi avanzano dieci minuti fra la
sveglia e il lavoro, voglio dedicarli ad altro, a chiudermi in me stesso, a
tirare le somme, o magari a guardare il cielo e a pensare che lo vedo forse per
l’ultima volta; o anche solo a lasciarmi vivere, a concedermi il lusso di un
minuscolo ozio.
Ma Steinlauf mi dà sulla voce. Ha
terminato di lavarsi, ora si sta asciugando con la giacca di tela che prima
teneva arrotolata fra le ginocchia e che poi infilerà, e senza interrompere
l’operazione mi somministra una lezione in piena regola.
Ho scordato ormai, e me ne duole,
le sue parole diritte e chiare, le parole del già sergente Steinlauf
dell’esercito austroungarico, croce di ferro della guerra ’14-18. Me ne duole,
perché dovrò tradurre il suo italiano incerto e il suo discorso piano di buon
soldato nel mio linguaggio di uomo incredulo. Ma questo ne era il senso, non
dimenticato allora né poi: che appunto perché il Lager è una gran macchina per
ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare; che anche in questo luogo
si può sopravvivere, e perciò si deve voler sopravvivere, per raccontare, per
portare testimonianza; e che per vivere è importante sforzarci di salvare
almeno lo scheletro, l’impalcatura, la forma della civiltà. Che siamo schiavi,
privi di ogni diritto, esposti a ogni offesa, votati a morte quasi certa, ma
che una facoltà ci è rimasta, e dobbiamo difenderla con ogni vigore perché è
l’ultima: la facoltà di negare il nostro consenso. Dobbiamo quindi, certamente,
lavarci la faccia senza sapone, nell’acqua sporca, e asciugarci nella giacca.
Dobbiamo dare il nero alle scarpe, non perché così prescrive il regolamento, ma
per dignità e per proprietà. Dobbiamo camminare diritti, senza strascicare gli
zoccoli, non già in omaggio alla disciplina prussiana, ma per restare vivi, per
non cominciare a morire.
Queste cose mi disse Steinlauf,
uomo di volontà buona: strane cose al mio orecchio dissueto, intese e accettate
solo in parte, e mitigate in una più facile, duttile e blanda dottrina, quella
che da secoli si respira al di qua delle Alpi, e secondo la quale, fra l’altro,
non c’è maggior vanità che sforzarsi di inghiottire interi i sistemi morali
elaborati da altri, sotto altro cielo. No, la saggezza e la virtù di Steinlauf,
buone certamente per lui, a me non bastano. Di fronte a questo complicato mondo
infero, le mie idee sono confuse; sarà proprio necessario elaborare un sistema
e praticarlo? O non sarà più salutare prendere coscienza di non avere sistema?
(1) Ruhe! = Silenzio!
(2) Brot-Broit-chleb-pain-lechemkenyér:
“pane” in diverse lingue.
(3) La propreté, c’est la sante =
La pulizia è salute (ma nella frase vi è un errore ortografico, come sottolineato
dall’autore).
(4) Distico = strofa di due
versi. L’aggettivo “ispirato” è chiaramente sarcastico.
La sala per lavarsi ad Auschwitz, oggi
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