“Una gigantesca esperienza biologica e sociale”: così l’autore
definisce i campi di concentramento. Un’esperienza che annulla ogni
sovrastruttura civile e divide gli uomini in due categorie: i salvati e i
sommersi (che inizialmente era anche il titolo che Primo Levi voleva dare al suo
romanzo). I sommersi che soffrono e scompaiono in solitudine e, come ruscelli
che vanno al mare, hanno seguito il pendio fino in fondo. I salvati, che,
godendo di una posizione privilegiata pur in uno stato di schiavitù, non si
fanno scrupolo di tradire la naturale solidarietà con i loro compagni di
sventura.
E nel capitolo Primo Levi racconta la storia di quattro salvati
che ha conosciuto, ma che non desidera rivedere.
I SOMMERSI E I
SALVATI
Questa, di cui abbiamo detto e
diremo, è la vita ambigua del Lager. In questo modo duro, premuti sul fondo,
hanno vissuto molti uomini dei nostri giorni, ma ciascuno per un tempo
relativamente breve; per cui ci si potrà forse domandare se proprio metta
conto, e se sia bene, che di questa eccezionale condizione umana rimanga una
qualche memoria.
A questa domanda ci sentiamo di
rispondere affermativamente. Noi siamo infatti persuasi che nessuna umana
esperienza sia vuota di senso e indegna di analisi, e che anzi valori
fondamentali, anche se non sempre positivi, si possano trarre da questo
particolare mondo di cui narriamo. Vorremmo far considerare come il Lager sia
stato, anche e notevolmente, una gigantesca esperienza biologica e sociale.
Si rinchiudano tra i fili spinati
migliaia di individui diversi per età, condizione, origine, lingua, cultura e
costumi, e siano quivi sottoposti a un regime di vita costante, controllabile,
identico per tutti e inferiore a tutti i bisogni: è quanto di più rigoroso uno
sperimentatore avrebbe potuto istituire per stabilire che cosa sia essenziale e
che cosa acquisito nel comportamento dell’animale-uomo di fronte alla lotta per
la vita.
Noi non crediamo alla più ovvia e
facile deduzione: che l’uomo sia fondamentalmente brutale, egoista e stolto
come si comporta quando ogni sovrastruttura civile sia tolta, e che lo
«Häftling» (1) non sia dunque che l’uomo senza inibizioni. Noi pensiamo
piuttosto che, quanto a questo, null’altro si può concludere, se non che di
fronte al bisogno e al disagio fisico assillanti, molte consuetudini e molti
istinti sociali sono ridotti al silenzio.
Ci pare invece degno di
attenzione questo fatto: viene in luce che esistono fra gli uomini due
categorie particolarmente ben distinte: i salvati e i sommersi. Altre coppie di
contrari (i buoni e i cattivi, i savi e gli stolti, i vili e i coraggiosi, i
disgraziati e i fortunati) sono assai meno nette, sembrano meno congenite, e
soprattutto ammettono gradazioni intermedie più numerose e complesse.
Questa divisione è molto meno
evidente nella vita comune; in questa non accade spesso che un uomo si perda,
perché normalmente l’uomo non è solo, e, nel suo salire e nel suo discendere, è
legato al destino dei suoi vicini; per cui è eccezionale che qualcuno cresca
senza limiti in potenza, o discenda con continuità di sconfitta in sconfitta
fino alla rovina. Inoltre ognuno possiede di solito riserve tali, spirituali,
fisiche e anche pecuniarie, che l’evento di un naufragio, di una insufficienza
davanti alla vita, assume una anche minore probabilità. Si aggiunga ancora che
una sensibile azione di smorzamento è esercitata dalla legge, e dal senso
morale, che è legge interna; viene infatti considerato tanto più civile un
paese, quanto più savie ed efficienti vi sono quelle leggi che impediscono al
misero di essere troppo misero, e al potente di essere troppo potente.
Ma in Lager avviene altrimenti:
qui la lotta per sopravvivere è senza remissione, perché ognuno è
disperatamente ferocemente solo. Se un qualunque Null Achtzehn (2) vacilla, non
troverà chi gli porga una mano; bensì qualcuno che lo abbatterà a lato, perché
nessuno ha interesse a che un «mussulmano» (3) di più si trascini ogni giorno
al lavoro; e se qualcuno, con un miracolo di selvaggia pazienza e astuzia,
troverà una nuova combinazione per defilarsi dal lavoro più duro, una nuova
arte che gli frutti qualche grammo di pane, cercherà di tenerne segreto il
modo, e di questo sarà stimato e rispettato, e ne trarrà un suo esclusivo
personale giovamento; diventerà più forte, e perciò sarà temuto, e chi è temuto
è, ipso facto (4), un candidato a sopravvivere.
Nella storia e nella vita pare
talvolta di discernere una legge feroce, che suona «a chi ha, sarà dato; a chi
non ha, a quello sarà tolto». Nel Lager, dove l’uomo è solo e la lotta per la
vita si riduce al suo meccanismo primordiale, la legge iniqua è apertamente in
vigore, è riconosciuta da tutti. Con gli adatti, con gli individui forti e
astuti, i capi stessi mantengono volentieri contatti, talora quasi
camerateschi, perché sperano di poterne trarre forse più tardi qualche utilità.
Ma ai mussulmani, agli uomini in dissolvimento, non vale la pena di rivolgere
la parola, poiché già si sa che si lamenterebbero, e racconterebbero quello che
mangiavano a casa loro. Tanto meno vale la pena di farsene degli amici, perché
non hanno in campo conoscenze illustri, non mangiano niente extrarazione, non
lavorano in Kommandos vantaggiosi e non conoscono nessun modo segreto di
organizzare. E infine, si sa che sono qui di passaggio, e fra qualche settimana
non ne rimarrà che un pugno di cenere in qualche campo non lontano, e su un
registro un numero di matricola spuntato. Benché inglobati e trascinati senza
requie dalla folla innumerevole dei loro consimili, essi soffrono e si
trascinano in una opaca intima solitudine, e in solitudine muoiono o
scompaiono, senza lasciar traccia nella memoria di nessuno.
Il risultato di questo spietato
processo di selezione naturale si sarebbe potuto leggere nelle statistiche del
movimento dei Lager. Ad Auschwitz, nell’anno 1944, dei vecchi prigionieri ebrei
(degli altri non diremo qui, ché altre erano le loro condizioni), «kleine
Nummer», piccoli numeri inferiori al centocinquantamila, poche centinaia
sopravvivevano; nessuno di questi era
un comune Häftling, vegetante nei comuni Kommandos e pago della normale razione.
Restavano solo i medici, i sarti, i ciabattini, i musicisti, i cuochi, i
giovani attraenti omosessuali, gli amici o compaesani di qualche autorità del
campo; inoltre individui particolarmente spietati, vigorosi e inumani,
insediatisi (in seguito a investitura da parte del comando delle SS, che in
tale scelta dimostravano di possedere una satanica conoscenza umana) nelle
cariche di Kapo (5), di Blockältester (6), o altre; e infine coloro che, pur
senza rivestire particolari funzioni, per la loro astuzia ed energia fossero
sempre riusciti a organizzare con successo, ottenendo così, oltre al vantaggio
materiale e alla reputazione, anche indulgenza e stima da parte dei potenti del
campo. Chi non sa diventare un Organisator, Kombinator, Prominent (truce
eloquenza dei termini!) finisce in breve mussulmano. Una terza via esiste nella
vita, dove è anzi la norma; non esiste in campo di concentramento.
Soccombere è la cosa più semplice:
basta eseguire tutti gli ordini che si ricevono, non mangiare che la razione,
attenersi alla disciplina del lavoro e del campo. L’esperienza ha dimostrato
che solo eccezionalmente si può in questo modo durare più di tre mesi. Tutti i
mussulmani che vanno in gas hanno la stessa storia, o, per meglio dire, non
hanno storia; hanno seguito il pendio fino al fondo, naturalmente, come i
ruscelli che vanno al mare. Entrati in campo, per loro essenziale incapacità, o
per sventura, o per un qualsiasi banale incidente, sono stati sopraffatti prima
di aver potuto adeguarsi; sono battuti sul tempo, non cominciano a imparare il
tedesco e a discernere qualcosa nell’infernale groviglio di leggi e di divieti,
che quando il loro corpo è già in sfacelo, e nulla li potrebbe più salvare
dalla selezione o dalla morte per deperimento. La loro vita è breve ma il loro
numero è sterminato; sono loro, i Muselmänner, i sommersi, il nerbo del campo;
loro, la massa anonima, continuamente rinnovata e sempre identica, dei non-uomini
che marciano e faticano in silenzio, spenta in loro la scintilla divina, già
troppo vuoti per soffrire veramente. Si esita a chiamarli vivi; si esita a
chiamar morte la loro morte, davanti a cui essi non temono perché sono troppo
stanchi per comprenderla.
Essi popolano la mia memoria
della loro presenza senza volto, e se potessi racchiudere in una immagine tutto
il male del nostro tempo, sceglierei questa immagine, che mi è familiare: un
uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui
occhi non si possa leggere traccia di pensiero.
Se i sommersi non hanno storia, e
una sola e ampia è la via della perdizione, le vie della salvazione sono invece
molte, aspre ed impensate.
La via maestra, come abbiamo
accennato, è la Prominenz. «Prominenten» si chiamano i funzionari del campo, a
partire dal direttore-Häftling (Lagerältester) ai Kapos, ai cuochi, agli
infermieri, alle guardie notturne, fino agli scopini delle baracche e agli
Scheissminister e Bademeister (sovraintendenti alle latrine e alle docce). Più
specialmente interessano qui i prominenti ebrei, poiché, mentre gli altri
venivano investiti degli incarichi automaticamente, al loro ingresso in campo,
in virtù della loro supremazia naturale, gli ebrei dovevano intrigare e lottare
duramente per ottenerli.
I prominenti ebrei costituiscono
un triste e notevole fenomeno umano. In loro convergono le sofferenze presenti,
passate e ataviche (7), e la tradizione e l’educazione di ostilità verso lo
straniero, per farne mostri di asocialità e di insensibilità.
Essi sono il tipico prodotto
della struttura del Lager tedesco: si offra ad alcuni individui in stato di
schiavitù una posizione privilegiata, un certo agio e una buona probabilità di
sopravvivere, esigendone in cambio il tradimento della naturale solidarietà coi
loro compagni, e certamente vi sarà chi accetterà. Costui sarà sottratto alla
legge comune, e diverrà intangibile; sarà perciò tanto più odioso e odiato,
quanto maggior potere gli sarà stato concesso. Quando gli venga affidato il comando
di un manipolo di sventurati, con diritto di vita o di morte su di essi, sarà
crudele e tirannico, perché capirà che se non lo fosse abbastanza, un altro,
giudicato più idoneo, subentrerebbe al suo posto. Inoltre avverrà che la sua
capacità di odio, rimasta inappagata nella direzione degli oppressori, si
riverserà, irragionevolmente, sugli oppressi: ed egli si troverà soddisfatto
quando avrà scaricato sui suoi sottoposti l’offesa ricevuta dall’alto.
Ci rendiamo conto che tutto
questo è lontano dal quadro che ci si usa fare, degli oppressi che si uniscono,
se non nel resistere, almeno nel sopportare. Non escludiamo che ciò possa
avvenire quando l’oppressione non superi un certo limite, o forse quando
l’oppressore, per inesperienza o per magnanimità, lo tolleri o lo favorisca. Ma
constatiamo che ai nostri giorni, in tutti i paesi in cui un popolo straniero
ha posto piede da invasore, si è stabilita una analoga situazione di rivalità e
di odio fra gli assoggettati; e ciò, come molti altri fatti umani, si è potuto
cogliere in Lager con particolare cruda evidenza.
Sui prominenti non ebrei c’è meno
da dire, benché fossero di gran lunga i più numerosi (nessuno Häftling «ariano»
era privo di una carica, sia pure modesta). Che siano stati stolidi e bestiali
è naturale, a chi pensi che per lo più erano criminali comuni, scelti dalle
carceri tedesche in vista appunto del loro impiego come sovrintendenti nei
campi per ebrei; e riteniamo che fosse questa una scelta ben accurata, perché
ci rifiutiamo di credere che gli squallidi esemplari umani che noi vedemmo
all’opera rappresentino un campione medio, non che dei tedeschi in genere,
anche soltanto dei detenuti tedeschi in specie. È più difficile spiegarsi come
in Auschwitz i prominenti politici tedeschi, polacchi e russi, rivaleggiassero
in brutalità con i rei comuni. Ma è noto che in Germania la qualifica di reato
politico si applicava anche ad atti quali il traffico clandestino, i rapporti
illeciti con ebree, i furti a danno di funzionari del Partito. I politici
«veri» vivevano e morivano in altri campi, dal nome ormai tristemente famoso,
in condizioni notoriamente durissime, ma sotto molti aspetti diverse da quelle
qui descritte.
Ma oltre ai funzionari
propriamente detti, vi è una vasta categoria di prigionieri che, non favoriti
inizialmente dal destino, lottano con le sole loro forze per sopravvivere.
Bisogna risalire la corrente; dare battaglia ogni giorno e ogni ora alla
fatica, alla fame, al freddo, e alla inerzia che ne deriva; resistere ai nemici
e non aver pietà per i rivali; aguzzare l’ingegno, indurare la pazienza,
tendere la volontà. O anche, strozzare ogni dignità e spegnere ogni lume di
coscienza, scendere in campo da bruti contro gli altri bruti, lasciarsi guidare
dalle insospettate forze sotterranee che sorreggono le stirpi e gli individui
nei tempi crudeli. Moltissime sono state le vie da noi escogitate e attuate per
non morire: tante quanti sono i caratteri umani. Tutte comportano una lotta
estenuante di ciascuno contro tutti, e molte una somma non piccola di
aberrazioni e di compromessi. Il sopravvivere senza aver rinunciato a nulla del
proprio mondo morale, a meno di potenti e diretti interventi della fortuna, non
è stato concesso che a pochissimi individui superiori, della stoffa dei martiri
e dei santi.
In quanti modi si possa dunque
raggiungere la salvazione, noi cercheremo di dimostrare raccontando le storie
di Schepschel, Alfred L., Elias e Henri.
Schepschel vive in Lager da
quattro anni. Si è visti morire intorno decine di migliaia di suoi simili, a
partire dal pogrom (8) che lo ha cacciato dal suo villaggio in Galizia (9).
Aveva moglie e cinque figli, e un prospero negozio di sellaio, ma da molto
tempo si è disabituato dal pensare a sé altrimenti che come a un sacco che deve
essere periodicamente riempito. Schepschel non è molto robusto, né molto
coraggioso, né molto malvagio; non è neppure particolarmente astuto, e non ha
mai trovato una sistemazione che gli conceda un po’ di respiro, ma è ridotto
agli espedienti spiccioli e saltuari, alle «kombinacje», come qui si chiamano.
Ogni tanto ruba in Buna (10) una
scopa e la rivende al Blockältester; quando riesce a mettere da parte un po’ di
capitale-pane (11), prende in affitto i ferri dal ciabattino del Block, che è
suo compaesano, e lavora qualche ora in proprio; sa fabbricare bretelle con
filo elettrico intrecciato; Sigi mi ha detto che nella pausa di mezzogiorno lo
ha visto cantare e ballare davanti alla capanna degli operai slovacchi, che lo
ricompensano qualche volta con gli avanzi della loro zuppa.
Ciò detto, ci si può sentire
portati a pensare a Schepschel con indulgente simpatia, come a un meschino il
cui spirito non alberga ormai che umile ed elementare volontà di vita, e che
conduce valorosamente la sua piccola lotta per non soccombere. Ma Schepschel
non era un’eccezione, e quando l’occasione si presentò, non esitò a far
condannare alla fustigazione Moischl, che gli era stato complice in un furto
alla cucina, nella speranza, malamente fondata, di acquistarsi merito agli
occhi del Blockältester, e di porre la sua candidatura al posto di lavatore
delle marmitte.
La storia dell’ingegner Alfred L.
dimostra, fra le altre cose, quanto sia vano il mito dell’uguaglianza originale
fra gli uomini.
L. dirigeva nel suo paese una
importantissima fabbrica di prodotti chimici, e il suo nome era (ed è) noto
negli ambienti industriali di tutta Europa. Era un uomo robusto sulla cinquantina;
non so come fosse stato arrestato, ma in campo era entrato come tutti entravano:
nudo, solo e sconosciuto. Quando io lo conobbi, era molto deperito, ma
conservava sul viso i tratti di una energia disciplinata e metodica; in quel
tempo, i suoi privilegi si limitavano alla pulitura giornaliera della marmitta
degli operai polacchi; questo lavoro, di cui egli aveva ottenuto non so come
l’esclusività, gli fruttava mezza gamella di zuppa al giorno. Non bastava
certamente questo a soddisfare la sua fame; tuttavia nessuno lo aveva mai udito
lamentarsi. Anzi, le poche parole che lasciava cadere erano tali da far pensare
a grandiose risorse segrete, a una «organizzazione» solida e fruttuosa.
Il che trovava conferma nel suo
aspetto. L. aveva «una linea»: le mani e il viso sempre perfettamente puliti,
aveva la rarissima abnegazione di lavarsi, ogni quindici giorni, la camicia,
senza aspettare il cambio bimestrale (facciamo qui notare che lavare la camicia
vuol dire trovare il sapone, trovare il tempo, trovare lo spazio nel lavatoio
sovraffollato; adattarsi a sorvegliare attentamente, senza distogliere gli
occhi un attimo, la camicia bagnata, e indossarla, naturalmente ancora bagnata,
all’ora del silenzio, in cui si spengono le luci); possedeva un paio di suole
di legno per andare alla doccia, e perfino il suo abito a righe era
singolarmente adatto alla sua corporatura, pulito e nuovo. L. si era procurato
in sostanza tutto l’aspetto del prominente assai prima di diventarlo: poiché
solo molto tempo dopo ho saputo che tutta questa ostentazione di prosperità, L.
se l’era saputa guadagnare con incredibile tenacia, pagando i singoli acquisti
e servizi col pane della sua stessa razione, e astringendosi così a un regime
di privazioni supplementari.
Il suo piano era di lungo
respiro, il che è tanto più notevole, in quanto era stato concepito in un
ambiente in cui dominava la mentalità del provvisorio; e L. lo attuò con rigida
disciplina interiore, senza pietà per sé, né, a maggior ragione, per i compagni
che gli traversassero il cammino. L. sapeva che fra l’essere stimato potente e
il divenire effettivamente tale il passo è breve, e che dovunque, ma
particolarmente frammezzo al generale livellamento del Lager, un aspetto
rispettabile è la miglior garanzia di essere rispettato. Egli dedicò ogni cura
al non essere confuso col gregge: lavorava con impegno ostentato, esortando
anche all’occasione i compagni pigri, con tono suadente e deprecatorio; evitava
la lotta quotidiana per il posto migliore nella coda del rancio, e si adattava
a ricevere ogni giorno la prima razione, notoriamente più liquida, in modo da
essere notato dal Blockältester per la sua disciplina. A completare il
distacco, nei rapporti con i compagni si comportava sempre con la massima
cortesia compatibile con il suo egoismo, che era assoluto.
Quando fu costituito, come
diremo, il Kommando Chimico, L. comprese che la sua ora era giunta: non
occorreva altro che il suo abito nitido e il suo viso scarno sì, ma rasato, in
mezzo alla mandria dei colleghi sordidi e sciatti, per convincere
immediatamente Kapo e Arbeitsdienst che quello era un autentico salvato, un
prominente potenziale; per cui (a chi ha, sarà dato) fu senz’altro promosso
«specializzato», nominato capotecnico del Kommando, e assunto dalla Direzione
della Buna come analista nel laboratorio del reparto Stirolo. Fu in seguito
incaricato di esaminare via via i nuovi acquisti del Kommando Chimico, per
giudicare della loro abilità professionale: il che egli fece sempre con estremo
rigore, specialmente nei riguardi di coloro in cui subodorava possibili futuri
competitori.
Ignoro il seguito della sua
storia; ma ritengo assai probabile che sia sfuggito alla morte, e viva oggi la
sua vita fredda di dominatore risoluto e senza gioia.
Elias Lindzin, 141 565, piovve un
giorno, inesplicabilmente, nel Kommando Chimico. Era un nano, non più alto di
un metro e mezzo, ma non ho mai visto una muscolatura come la sua. Quando è
nudo, si distingue ogni muscolo lavorare sotto la pelle, potente e mobile come
un animale a sé stante; ingrandito senza alterarne le proporzioni, il suo corpo
sarebbe un buon modello per un Ercole: ma non bisogna guardare la testa.
Sotto il cuoio capelluto, le
suture craniche sporgono smisurate. Il cranio è massiccio, e dà l’impressione
di essere di metallo o di pietra; si vede il limite nero dei capelli rasi
appena un dito sopra le sopracciglia. Il naso, il mento, la fronte, gli zigomi
sono duri e compatti, l’intero viso sembra una testa d’ariete, uno strumento
adatto a percuotere. Dalla sua persona emana un senso di vigore bestiale.
Veder lavorare Elias è uno
spettacolo sconcertante; i Meister (12) polacchi, i tedeschi stessi talvolta si
soffermano ad ammirare Elias all’opera. Pare che a lui nulla sia impossibile.
Mentre noi portiamo a stento un sacco di cemento, Elias ne porta due, poi tre,
poi quattro, mantenendoli in equilibrio non si sa come, e mentre cammina fitto
fitto sulle gambe corte e tozze, fa smorfie di sotto il carico, ride, impreca,
urla e canta senza requie, come se avesse polmoni di bronzo. Elias, nonostante
le suole di legno, si arrampica come una scimmia su per le impalcature, e corre
sicuro su travi sospese nel vuoto; porta sei mattoni per volta in bilico sul
capo; sa farsi un cucchiaio con un pezzo di lamiera, e un coltello con un
rottame di acciaio; trova ovunque carta, legna e carbone asciutti e sa
accendere in pochi istanti un fuoco anche sotto la pioggia. Sa fare il sarto,
il falegname, il ciabattino, il barbiere; sputa a distanze incredibili; canta,
con voce di basso non sgradevole, canzoni polacche e yiddisch (13) mai prima
sentite; può ingerire sei, otto, dieci litri di zuppa senza vomitare e senza
avere diarrea, e riprendere il lavoro subito dopo. Sa farsi uscire fra le
spalle una grossa gobba, e va attorno per la baracca sbilenco e contraffatto,
strillando e declamando incomprensibile, fra la gioia dei potenti del campo.
L’ho visto lottare con un polacco più alto di lui di tutto il capo, e
atterrarlo con un colpo del cranio nello stomaco, potente e preciso come una
catapulta. Non l’ho mai visto riposare, non l’ho mai visto zitto o fermo, non
l’ho mai saputo ferito o ammalato.
Della sua vita di uomo libero,
nessuno sa nulla; del resto, rappresentarsi Elias in veste di uomo libero esige
un profondo sforzo della fantasia e dell’induzione. Non parla che polacco, e
l’yiddisch torvo e deforme di Varsavia; inoltre, è impossibile indurlo a un
discorso coerente. Potrebbe avere venti o quarant’anni; di solito dice di
averne trentatre, e di avere procreato diciassette figli: il che non è
inverosimile. Parla continuamente, degli argomenti più disparati; sempre con
voce tonante, con accento oratorio, con una mimica violenta da dissociato. Come
se sempre si rivolgesse a un folto pubblico: e, come è naturale, il pubblico
non gli manca mai. Quelli che capiscono il suo linguaggio bevono le sue
declamazioni torcendosi dalle risa, gli battono le spalle dure entusiasti, lo
stimolano a proseguire; mentre lui, feroce e aggrondato, si rigira come una
belva entro la cerchia degli ascoltatori, apostrofando ora questo ora quello; a
un tratto ghermisce uno per il petto con la sua piccola zampa adunca, lo attrae
a sé irresistibile, gli vomita sul viso attonito una incomprensibile invettiva,
poi lo scaglia indietro come un fuscello, e, fra gli applausi e le risa, le
braccia tese al cielo come un piccolo mostro profetante, prosegue nel suo dire
furibondo e dissennato.
La sua fama di lavoratore
d’eccezione si diffuse assai presto, e, per l’assurda legge del Lager, da
allora smise praticamente di lavorare. La sua opera veniva richiesta direttamente
dai Meister, per quei lavori soltanto ove occorressero perizia e vigore
particolari. A parte queste prestazioni, sovrintendeva insolente e violento al
nostro piatto faticare quotidiano, eclissandosi di frequente per misteriose
visite e avventure in chissà quali recessi del cantiere, di dove ritornava con
grossi rigonfi nelle tasche e spesso con lo stomaco visibilmente ripieno.
Elias è naturalmente e
innocentemente ladro: manifesta in questo l’istintiva astuzia degli animali
selvaggi. Non viene mai colto sul fatto, perché non ruba che quando si presenta
un’occasione sicura: ma quando questa si presenta, Elias ruba, fatalmente e
prevedibilmente, così come cade una pietra abbandonata. A parte il fatto che è
difficile sorprenderlo, è chiaro che a nulla servirebbe punirlo dei suoi furti:
essi rappresentano per lui un atto vitale qualsiasi, come respirare e dormire.
Ci si può ora domandare chi è
questo uomo Elias. Se è un pazzo, incomprensibile ed extraumano, finito in
Lager per caso. Se è un atavismo (14), eterogeneo dal nostro mondo moderno, e
meglio adatto alle primordiali condizioni di vita del campo. O se non è invece
un prodotto del campo, quello che tutti noi diverremo, se in campo non morremo,
e se il campo stesso non finirà prima.
C’è del vero nelle tre
supposizioni. Elias è sopravvissuto alla distruzione dal di fuori, perché è
fisicamente indistruttibile; ha resistito all’annientamento dal di dentro,
perché è demente. È
dunque in primo luogo un superstite: è il più adatto, l’esemplare umano più
idoneo a questo modo di vivere.
Se Elias riacquisterà la libertà,
si troverà confinato in margine del consorzio umano, in un carcere o in un
manicomio. Ma qui, in Lager, non vi sono criminali né pazzi: non criminali,
perché non v’è legge morale a cui contravvenire, non pazzi, perché siamo
determinati, e ogni nostra azione è, a tempo e luogo, sensibilmente l’unica
possibile.
In Lager, Elias prospera e
trionfa. È un buon lavoratore e un buon organizzatore, e per tale duplice
ragione è al sicuro dalle selezioni e rispettato da capi e compagni. Per chi
non abbia salde risorse interne, per chi non sappia trarre dalla coscienza di
sé la forza necessaria per ancorarsi alla vita, la sola strada di salvezza
conduce a Elias: alla demenza e alla bestialità subdola. Tutte le altre strade
non hanno sbocco.
Ciò detto, qualcuno sarebbe forse
tentato di trarre conclusioni, e magari anche norme, per la nostra vita
quotidiana. Non esistono attorno a noi degli Elias, più o meno realizzati? Non
vediamo noi vivere individui ignari di scopo, e negati a ogni forma di
autocontrollo e di coscienza? Ed essi non già vivono malgrado queste loro lacune, ma precisamente, come Elias, in
funzione di esse.
La questione è grave, e non sarà
ulteriormente svolta, perché queste vogliono essere storie del Lager, e
sull’uomo fuori del Lager molto si è già scritto. Ma una cosa ancora vorremmo
aggiungere: Elias, per quanto ci è possibile giudicare dal di fuori, e per
quanto la frase può avere di significato, Elias era verosimilmente un individuo
felice.
Henri è invece eminentemente
civile e consapevole, e sui modi di sopravvivere in Lager possiede una teoria
completa e organica. Non ha che ventidue anni; è intelligentissimo, parla
francese, tedesco, inglese e russo, ha un’ottima cultura scientifica e
classica.
Suo fratello è morto in Buna
nell’ultimo inverno, e da quel giorno Henri ha reciso ogni vincolo di affetti;
si è chiuso in sé come in una corazza, e lotta per vivere senza distrarsi, con
tutte le risorse che può trarre dal suo intelletto pronto e dalla sua
educazione raffinata. Secondo la teoria di Henri, per sfuggire
all’annientamento, tre sono i metodi che l’uomo può applicare rimanendo degno
del nome di uomo: l’organizzazione, la pietà e il furto.
Lui stesso li pratica tutti e
tre. Nessuno è miglior stratega di Henri nel circuire («coltivare», dice lui) i
prigionieri di guerra inglesi. Essi diventano, nelle sue mani, vere galline
dalle uova d’oro: si pensi che, dal baratto di una sola sigaretta inglese, in
Lager si ricava di che sfamarsi per un giorno. Henri è stato visto una volta in
atto di mangiare un autentico uovo sodo.
Il traffico della merce di
provenienza inglese è monopolio di Henri, e fin qui si tratta di
organizzazione; ma il suo strumento di penetrazione, presso gli inglesi e gli
altri, è la pietà. Henri ha il corpo e il viso delicati e sottilmente perversi
del San Sebastiano del Sodoma (15): i suoi occhi sono neri e profondi, non ha
ancora barba, si muove con languida naturale eleganza (quantunque
all’occorrenza sappia correre e saltare come un gatto, e la capacità del suo
stomaco sia appena inferiore a quella di Elias). Di queste sue doti naturali
Henri è perfettamente a conoscenza, e le mette a profitto con la fredda
competenza di chi manovra uno strumento scientifico: i risultati sono
sorprendenti. Si tratta in sostanza di una scoperta: Henri ha scoperto che la
pietà, essendo un sentimento primario e irriflesso, alligna assai bene, se
abilmente instillata, proprio negli animi primitivi dei bruti che ci comandano,
di quelli stessi che non hanno ritegno ad abbatterci a pugni senza perché, e a
calpestarci una volta a terra, e non gli è sfuggita la grande portata pratica
di questa scoperta, sulla quale egli ha inserito la sua industria personale.
Come l’icneumone (16) paralizza i
grossi bruchi pelosi, ferendoli nel loro unico ganglio vulnerabile, così Henri
valuta con un’occhiata il soggetto, «son type» (17); gli parla brevemente, a
ciascuno con il linguaggio appropriato, e il «type» è conquistato: ascolta con
crescente simpatia, si commuove sulla sorte del giovane sventurato, e non
occorre molto tempo perché incominci a rendere.
Non c’è anima così indurita su
cui Henri non riesca a far breccia, se ci si mette seriamente. In Lager, e
anche in Buna, i suoi protettori sono numerosissimi: soldati inglesi, operai
civili francesi, ucraini, polacchi; «politici» tedeschi; almeno quattro
Blockälteste, un cuoco, perfino una SS. Ma il suo campo preferito è il Ka-Be
(18); in Ka-Be Henri ha ingresso libero, il dottor Citron e il dottor Weiss
sono, più che suoi protettori, suoi amici, e lo ricoverano quando vuole, e con
la diagnosi che vuole. Ciò avviene specialmente in vista delle selezioni, e nei
periodi di lavoro più gravoso: a «svernare», dice lui.
Disponendo di così cospicue
amicizie, è naturale che raramente Henri sia ridotto alla terza via, al furto;
d’altronde, si comprende che su questo argomento non si confidi volentieri.
È molto gradevole discorrere con
Henri, nei momenti di riposo. È
anche utile: non c’è cosa del campo che egli non conosca, e su cui non abbia
ragionato, nella sua maniera serrata e coerente. Delle sue conquiste, parla con
educata modestia, come di prede di poco conto, ma si dilunga volentieri a
esporre il calcolo che l’ha condotto ad avvicinare Hans chiedendogli del figlio
al fronte, e invece Otto mostrandogli le cicatrici che ha sugli stinchi.
Parlare con Henri è utile e
gradevole; accade anche, qualche volta, di sentirlo caldo e vicino, pare
possibile una comunicazione, forse perfino un affetto; sembra di percepire il
fondo umano, dolente e consapevole della sua non comune personalità. Ma il
momento appresso il suo sorriso triste si raggela in una smorfia fredda che
pare studiata allo specchio; Henri domanda cortesemente scusa («... j’ai
quelque chose à faire», «... j’ai quelqu’un à voir») (19), ed eccolo di nuovo
tutto alla sua caccia e alla sua lotta: duro e lontano, chiuso nella sua
corazza, nemico di tutti, inumanamente scaltro e incomprensibile come il
Serpente della Genesi.
Da tutti i colloqui con Henri,
anche dai più cordiali, sono sempre uscito con un leggero sapore di sconfitta;
col sospetto confuso di essere stato anch’io, in qualche modo inavvertito, non
un uomo di fronte a lui, ma uno strumento nelle sue mani.
Oggi so che Henri è vivo. Darei
molto per conoscere la sua vita di uomo libero, ma non desidero rivederlo.
(1) Häftling = detenuto.
(2) Null Achtzehn = Zero
Diciotto. Primo Levi si riferisce al prigioniero descritto al capitolo 4
(Ka-Be), che veniva chiamato così, cioè con i suoi numeri finali tatuati sul
braccio, poiché nessuno ne conosceva il vero nome; egli assume per l’autore il
significato del tipico prigioniero di Auschwitz destinato ad essere sommerso.
(3) Con tale termine, «Muselmann», ignoro per quale
ragione, i vecchi del campo designavano i deboli, gli inetti, i votati alla
selezione. (Questa nota è di Primo Levi
stesso, all’edizione del 1958 del suo romanzo).
(4) ipso facto = espressione latina che significa
letteralmente “per il fatto stesso”, cioè automaticamente, immediatamente.
(5) Kapo = prigioniero che in un lager aveva il
compito di comandare sugli altri detenuti.
(6) Blockältester = kapo
responsabile di un Block, di una baracca.
(7) ataviche = tipiche della
cultura e della vita dei propri progenitori, quindi, parte di sé in maniera
fondamentale e automatica.
(8) pogrom = sommossa sanguinosa
contro gli ebrei, considerati capri espiatori del malcontento popolare.
(9) La Galizia di cui qui si
parla è quella tra Polonia e Ucraina.
(10) Buna è il nome del campo di
Monowitz, vicino ad Auschwitz, in cui si trova Primo Levi.
(11) Capitale-pane = pane che
costituisce tutto il suo capitale e che quindi può barattare con qualcos’altro
di suo interesse.
(12) Meister = letteralmente mastri,
maestri; qui si tratta dei lavoratori civili del campo.
(13) Yiddisch = dialetto degli
ebrei dell’Europa centro-orientale.
(14) Atavismo = individuo dalle
caratteristiche fisiche e psichiche non presenti nei progenitori più prossimi,
ma risalenti agli avi più remoti, preistorici.
(15) L’autore si riferisce al
dipinto di Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma, conservato agli Uffizi di
Firenze (vedi qua sotto).
(16) Icneumone [pronuncia:
icnèumone] = la mangusta africana.
(17) Son type = il suo tipo, il
soggetto che fa al caso suo.
(18) Ka-Be = l’infermeria (vedi
capitolo 4).
(19) «... j’ai quelque chose à
faire», «... j’ai quelqu’un à voir» = «... ho qualcosa da fare», «... devo
vedere una persona».
Sopravvissuti di Auschwitz
San Sebastiano di Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma
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