Nell’ultimo capitolo del suo romanzo, Primo Levi racconta
gli ultimi dieci giorni ad Auschwitz prima dell’arrivo dei russi: l’abbandono
del campo da parte delle SS, il bombardamento del lager, le disumane condizioni
dei sopravvissuti deperiti o malati, la ricerca di qualcosa da mangiare e da
bere, la morte di molti di essi, il recupero di umanità da parte dei
prigionieri.
STORIA DI DIECI GIORNI
Già da molti mesi ormai si
sentiva a intervalli il rombo dei cannoni russi, quando, l’11 gennaio 1945, mi
ammalai di scarlattina e fui nuovamente ricoverato in Ka-Be.
«Infektionsabteilung»: vale a dire una cameretta, per verità assai pulita, con
dieci cuccette su due piani; un armadio; tre sgabelli, e la seggetta col
secchio per i bisogni corporali. Il tutto in tre metri per cinque.
Sulle cuccette superiori era
disagevole salire, non c’era scala; perciò quando un malato si aggravava veniva
trasferito alle cuccette inferiori.
Quando io entrai, fui il
tredicesimo: degli altri dodici, quattro avevano la scarlattina, due francesi
«politici» e due ragazzi ebrei ungheresi; c’erano poi tre difterici, due
tifosi, e uno affetto da una ributtante risipola tacciale. I due rimanenti
avevano più di una malattia ed erano incredibilmente deperiti.
Avevo febbre alta. Ebbi la
fortuna di avere una cuccetta tutta per me; mi coricai con sollievo, sapevo di
avere diritto a quaranta giorni di isolamento e quindi di riposo, e mi ritenevo
abbastanza ben conservato da non dover temere le conseguenze della scarlattina
da una parte, e le selezioni dall’altra.
Grazie alla mia ormai lunga
esperienza delle cose del campo, ero riuscito a portare con me le mie cose
personali: una cintura di fili elettrici intrecciati; il cucchiaio-coltello; un
ago con tre gugliate; cinque bottoni; e infine, diciotto pietrine per acciarino
che avevo rubato in Laboratorio. Da ognuna di queste, assottigliandola
pazientemente col coltello, si potevano ricavare tre pietrine più piccole, del
calibro adatto a un normale accendisigaro. Erano state valutate sei o sette
razioni di pane.
Passai quattro giorni tranquilli.
Fuori nevicava e faceva molto freddo, ma la baracca era riscaldata. Ricevevo
forti dosi di sulfamidico, soffrivo di una nausea intensa e stentavo a
mangiare; non avevo voglia di attaccare discorso.
I due francesi con la scarlattina
erano simpatici. Erano due provinciali dei Vosgi, entrati in campo da pochi
giorni con un grosso trasporto di civili rastrellati dai tedeschi in ritirata
dalla Lorena. Il più anziano si chiamava Arthur, era contadino, piccolo e magro.
L’altro, suo compagno di cuccetta, si chiamava Charles, era maestro di scuola e
aveva trentadue anni; invece della camicia gli era toccata una canottiera
estiva comicamente corta.
Il quinto giorno venne il
barbiere. Era un greco di Salonicco; parlava solo il bello spagnolo della sua
gente, ma capiva qualche parola di tutte le lingue che si parlavano in campo.
Si chiamava Askenazi, ed era in campo da quasi tre anni; non so come avesse
potuto ottenere la carica di «Frisör» del Ka-Be: infatti non parlava tedesco né
polacco e non era eccessivamente brutale. Prima che entrasse, lo avevo sentito
parlare a lungo concitatamente nel corridoio col medico, che era suo
compatriota. Mi parve che avesse una espressione insolita, ma poiché la mimica
dei levantini non corrisponde alla nostra, non comprendevo se fosse spaventato,
o lieto, o emozionato. Mi conosceva, o almeno sapeva che io ero italiano.
Quando fu il mio turno, scesi
laboriosamente dalla cuccetta. Gli chiesi in italiano se c’era qualcosa di
nuovo: egli interruppe rasatura, strizzò gli occhi in modo solenne e allusivo,
indicò la finestra col mento, poi fece colla mano un gesto ampio verso ponente:
- Morgen, alle Kamarad weg.
Mi guardò un momento cogli occhi
spalancati, come in attesa del mio stupore, poi aggiunse: - Todos todos, e
riprese il lavoro. Sapeva delle mie pietrine, perciò mi rase con una certa
delicatezza.
La notizia non provocò in me
alcuna emozione diretta. Da molti mesi non conoscevo più il dolore, la gioia,
il timore, se non in quel modo staccato e lontano che è caratteristico del
Lager, e che si potrebbe chiamare condizionale: se avessi ora -pensavo - la mia
sensibilità di prima, questo sarebbe un momento estremamente emozionante.
Avevo le idee perfettamente
chiare; da molto tempo Alberto ed io avevamo previsto i pericoli che avrebbero
accompagnato il momento della evacuazione del campo e della liberazione. Del
resto la notizia portata da Askenazi non era che la conferma di una che
circolava già da vari giorni: che i russi erano a Censtochowa, cento chilometri
a nord; che erano a Zakopane, cento chilometri a sud; che in Buna i tedeschi
già preparavano le mine di sabotaggio.
Guardai uno per uno i visi dei
miei compagni di camera: era chiaro che non metteva conto di parlarne con
nessuno di loro. Mi avrebbero risposto: «Ebbene?» e tutto sarebbe finito li. I
francesi erano diversi, erano ancora freschi.
- Sapete? - dissi loro: - Domani
si evacua il campo.
Mi coprirono di domande: - Verso
dove? A piedi?... e anche i malati? Quelli che non possono camminare? - Sapevano
che ero un vecchio prigioniero e che capivo il tedesco: ne concludevano che
sapessi sull’argomento molto più di quanto non volessi ammettere.
Non sapevo altro: lo dissi, ma
quelli continuarono colle domande. Che seccatura. Ma già, erano in Lager da
qualche settimana, non avevano ancora imparato che in Lager non si fanno
domande.
Nel pomeriggio venne il medico
greco. Disse che, anche fra i malati, tutti quelli che potevano camminare
sarebbero stati forniti di scarpe e di abiti, e sarebbero partiti il giorno
dopo, con i sani, per una marcia di venti chilometri. Gli altri sarebbero
rimasti in Ka-Be, con personale di assistenza scelto fra i malati meno gravi.
Il medico era insolitamente
ilare, sembrava ubriaco. Lo conoscevo, era un uomo colto, intelligente, egoista
e calcolatore. Disse ancora che tutti indistintamente avrebbero ricevuto tripla
razione di pane, al che i malati si rallegrarono visibilmente. Gli facemmo
qualche domanda su che cosa sarebbe stato di noi. Rispose che probabilmente i
tedeschi ci avrebbero abbandonati al nostro destino: no, non credeva che ci
avrebbero uccisi. Non metteva molto impegno a nascondere che pensava il
contrario, la sua stessa allegria era significativa.
Era già equipaggiato per la
marcia; appena fu uscito, i due ragazzi ungheresi presero a parlare
concitatamente fra di loro. Erano in avanzata convalescenza, ma molto deperiti.
Si capiva che avevano paura di restare coi malati, deliberavano di partire coi
sani. Non si trattava di un ragionamento: è probabile che anche io, se non mi
fossi sentito così debole, avrei seguito l’istinto del gregge; il terrore è
eminentemente contagioso, e l’individuo atterrito cerca in primo luogo la fuga.
Fuori della baracca si sentiva il
campo in insolita agitazione. Uno dei due ungheresi si alzò, uscì e tornò dopo
mezz’ora carico di stracci immondi. Doveva averli sottratti al magazzino degli
effetti da passare alla disinfezione. Lui e il suo compagno si vestirono
febbrilmente, indossando stracci su stracci. Si vedeva che avevano fretta di
mettersi davanti al fatto compiuto, prima che la paura stessa li facesse
recedere. Era insensato pensare di fare anche solo un’ora di cammino deboli
come erano, e per di più nella neve, e con quelle scarpe rotte trovate
all’ultimo momento. Tentai di spiegarlo, ma mi guardarono senza rispondere.
Avevano gli occhi come le bestie impaurite.
Solo per un attimo mi passò per
il capo che potevano anche aver ragione loro. Uscirono maldestri dalla
finestra, li vidi, fagotti informi, barcollare fuori nella notte. Non sono
tornati; ho saputo molto più tardi che, non potendo proseguire, furono
abbattuti dalle SS poche ore dopo l’inizio della marcia.
Anche per me ci voleva un paio di
scarpe: era chiaro. Pure ci volle forse un’ora perché riuscissi a vincere la
nausea, la febbre e l’inerzia. Ne trovai un paio nel corridoio (i sani avevano
saccheggiato il deposito delle scarpe dei ricoverati, e si erano prese le
migliori: le più scadenti, sfondate e spaiate, giacevano in tutti i canti).
Proprio là incontrai Kosman, un alsaziano. Era, da civile corrispondente della
«Reuter» a Clermont-Ferrand: anche lui eccitato ed euforico. Disse: - Se
dovessi tu ritornare prima di me, scrivi al sindaco di Metz che io sto per
rientrare.
Kosman aveva notoriamente
conoscenze fra i Prominenti, perciò il suo ottimismo mi parve buon indizio e lo
utilizzai per giustificare davanti a me stesso la mia inerzia. Nascosi le
scarpe e ritornai a letto.
A tarda notte venne ancora il
medico greco, con un sacco sulle spalle e un passamontagna. Gettò sulla mia
cuccetta un romanzo francese: - Tieni, leggi, italiano. Me lo renderai quando
ci rivedremo. - Ancora oggi lo odio per questa sua frase. Sapeva che noi eravamo
condannati.
E venne finalmente Alberto,
sfidando il divieto, a salutarmi dalla finestra. Era il mio indivisibile: noi
eravamo «i due italiani» e per lo più i compagni stranieri confondevano i
nostri nomi. Da sei mesi dividevamo la cuccetta, e ogni grammo di cibo
organizzato extra-razione; ma lui aveva superata la scarlattina da bambino, e
io non avevo quindi potuto contagiarlo. Perciò lui partì e io rimasi. Ci
salutammo, non occorrevano molte parole, ci eravamo dette tutte le nostre cose
già infinite volte. Non credevamo che saremmo rimasti a lungo separati. Aveva
trovato grosse scarpe di cuoio, in discreto stato: era uno di quelli che
trovano subito tutto ciò di cui hanno bisogno.
Anche lui era allegro e
fiducioso, come tutti quelli che partivano. Era comprensibile: stava per
accadere qualcosa di grande e di nuovo: si sentiva finalmente intorno una forza
che non era quella della Germania, si sentiva materialmente scricchiolare tutto
quel nostro mondo maledetto. O almeno, questo sentivano i sani, che, per quanto
stanchi e affamati, avevano modo di muoversi; ma è indiscutibile che chi è
troppo debole, o nudo, o scalzo, pensa e sente in un altro modo, e ciò che
dominava le nostre menti era la sensazione paralizzante di essere totalmente
inermi e in mano alla sorte.
Tutti i sani (tranne qualche ben
consigliato che all’ultimo istante si spogliò e si cacciò in qualche cuccetta
di infermeria) partirono nella notte sul 18 gennaio 1945. Dovevano essere circa
ventimila, provenienti da vari campi. Nella quasi totalità, essi scomparvero
durante la marcia di evacuazione: Alberto è fra questi. Qualcuno scriverà forse
un giorno la loro storia.
Noi restammo dunque nei nostri
giacigli, soli con le nostre malattie, e con la nostra inerzia più forte della
paura.
Nell’intero Ka-Be eravamo forse
ottocento. Nella nostra camera eravamo rimasti undici, ciascuno in una cuccetta,
tranne Charles e Arthur che dormivano insieme. Spento il ritmo della grande
macchina del Lager, incominciarono per noi i dieci giorni fuori del mondo e del
tempo.
18 gennaio. Nella notte dell’evacuazione le cucine del campo
avevano ancora funzionato, e il mattino seguente fu fatta nel l’infermeria
l’ultima distribuzione di zuppa. L’impianto centrale di riscaldamento era stato
abbandonato; nelle baracche ristagnava ancora un po’ di calore, ma a ogni ora
che passava, la temperatura si andava abbassando, e si comprendeva che in breve
avremmo sofferto il freddo. Fuori ci dovevano essere almeno 20° sotto lo zero;
la maggior parte dei malati non aveva che la camicia, e alcuni nemmeno quella.
Nessuno sapeva quale fosse la
nostra condizione. Alcune SS erano rimaste, alcune torrette di guardia erano
ancora occupate.
Verso mezzogiorno un maresciallo
delle SS fece il giro delle baracche. Nominò in ognuna un capo-baracca
scegliendolo fra i non-ebrei rimasti, e dispose che fosse immediatamente fatto
un elenco dei malati, distinti in ebrei e non-ebrei. La cosa pareva chiara.
Nessuno si stupì che i tedeschi conservassero fino all’ultimo il loro amore
nazionale per le classificazioni, e, nessun ebreo pensò seriamente di vivere
fino al giorno successivo.
I due francesi non avevano capito
ed erano spaventati. Tradussi loro di malavoglia il discorso della SS; trovavo
irritante che avessero paura: non avevano ancora un mese di Lager, non avevano
quasi ancora fame, non erano neppure ebrei, e avevano paura.
Fu fatta ancora una distribuzione
di pane. Passai il pomeriggio a leggere il libro lasciato dal medico: era molto
interessante e lo ricordo con bizzarra precisione. Feci anche una visita al
reparto accanto, in cerca di coperte: di là molti malati erano stati messi in
uscita, le loro coperte erano rimaste libere. Ne presi con me alcune abbastanza
calde.
Quando seppe che venivano dal
Reparto Dissenteria Arthur arricciò il naso: - Y-avait point besoin de le dire
-; infatti erano macchiate. Io pensavo che in ogni modo, dato ciò che ci
aspettava, sarebbe stato meglio dormire ben coperti.
Fu presto notte, ma la luce
elettrica funzionava ancora. Vedemmo con tranquillo spavento che all’angolo
della baracca stava una SS armata. Non avevo voglia di parlare, e non provavo
timore se non nel modo esterno e condizionale che ho detto. Continuai a leggere
fino a tarda ora.
Non vi erano orologi, ma dovevano
essere le ventitre quando tutte le luci si spensero, anche quelle dei
riflettori sulle torrette di guardia. Si vedevano lontano i fasci dei
fotoelettrici. Fiorì in cielo un grappolo di luci intense, che si mantennero
immobili illuminando crudamente il terreno. Si sentiva il rombo degli apparecchi.
Poi cominciò il bombardamento.
Non era cosa nuova, scesi a terra, infilai i piedi nudi nelle scarpe e attesi.
Sembrava lontano, forse su
Auschwitz.
Ma ecco un’esplosione vicina, e,
prima di poter formulare un pensiero, una seconda e una terza da sfondare le
orecchie. Si sentirono vetri rovinare, la baracca oscillò, cadde a terra il
cucchiaio che tenevo infisso in una commessura della parete di legno.
Poi parve finito. Cagnolati, un
giovane contadino, egli pure dei Vosgi, non doveva aver mai visto una
incursione: era uscito nudo dal letto, si era appiattato in un angolo e urlava.
Dopo pochi minuti fu evidente che
il campo era stato colpito. Due baracche bruciavano con violenza, altre due
erano state polverizzate, ma erano tutte baracche vuote. Arrivarono decine di
malati, nudi e miserabili, da una baracca minacciata dal fuoco: chiedevano
ricovero. Impossibile accoglierli. Insistettero, supplicando e minacciando in
molte lingue: dovemmo barricare la porta. Si trascinarono altrove, illuminati
dalle fiamme, scalzi nella neve in fusione. A molti pendevano dietro i bendaggi
disfatti. Per la nostra baracca non pareva ci fosse pericolo, a meno che il
vento non girasse.
I tedeschi non c’erano più. Le
torrette erano vuote.
Oggi io penso che, se non altro
per il fatto che un Auschwitz è esistito, nessuno dovrebbe ai nostri giorni
parlare di Provvidenza: ma è certo che in quell’ora il ricordo dei salvamenti
biblici nelle avversità estreme passò come un vento per tutti gli animi.
Non si poteva dormire; un vetro
era rotto e faceva molto freddo. Pensavo che avremmo dovuto cercare una stufa
da installare, e procurarci carbone, legna e viveri. Sapevo che tutto questo
era necessario, ma senza l’appoggio di qualcuno non avrei mai avuto l’energia
di metterlo in atto. Ne parlai coi due francesi.
19 gennaio. I francesi furono d’accordo. Ci alzammo all’alba, noi
tre. Mi sentivo malato e inerme, avevo freddo e paura.
Gli altri malati ci guardarono
con curiosità rispettosa: non sapevamo che ai malati non era permesso uscire
dal Ka-Be? E se i tedeschi non erano ancora tutti partiti? Ma non dissero
nulla, erano contenti che ci fosse qualcuno per fare la prova.
I francesi non avevano alcuna
idea della topografia del Lager, ma Charles era coraggioso e robusto, e Arthur
era sagace e aveva un buon senso pratico di contadino. Uscimmo nel vento di una
gelida giornata di nebbia, malamente avvolti in coperte.
Quello che vedemmo non assomiglia
a nessuno spettacolo che io abbia mai visto né sentito descrivere.
Il Lager, appena morto, appariva
già decomposto. Niente più acqua ed elettricità: finestre e porte sfondate
sbattevano nel vento, stridevano le lamiere sconnesse dei tetti, e le ceneri
dell’incendio volavano alto e lontano. All’opera delle bombe si aggiungeva
l’opera degli uomini: cenciosi, cadenti, scheletrici, i malati in grado di
muoversi si trascinavano per ogni dove, come una invasione di vermi, sul
terreno indurito dal gelo. Avevano rovistato tutte le baracche vuote in cerca
di alimenti e di legna; avevano violato con furia insensata le camere degli
odiati Blockälteste, grottescamente adorne, precluse fino al giorno prima ai
comuni Häftlinge; non più padroni dei propri visceri, avevano insozzato
dovunque, inquinando la preziosa neve, unica sorgente d’acqua ormai per
l’intero campo.
Attorno alle rovine fumanti delle
baracche bruciate, gruppi di malati stavano applicati al suolo, per succhiarne
l’ultimo calore. Altri avevano trovato patate da qualche parte, e le
arrostivano sulle braci dell’incendio, guardandosi intorno con occhi feroci. Pochi
avevano avuto la forza di accendersi un vero fuoco, e vi facevano fondere la
neve in recipienti di fortuna.
Ci dirigemmo alle cucine più in
fretta che potemmo, ma le patate erano già quasi finite. Ne riempimmo due
sacchi, e li lasciammo in custodia ad Arthur. Tra le macerie del Prominenzblock,
Charles ed io trovammo finalmente quanto cercavamo: una pesante stufa di ghisa,
con tubi ancora utilizzabili: Charles accorse con una carriola e caricammo; poi
lasciò a me l’incarico di portarla in baracca e corse ai sacchi. Là trovò
Arthur svenuto per il freddo; Charles si caricò entrambi i sacchi e li portò al
sicuro, poi si occupò dell’amico.
Intanto io, reggendomi a stento,
cercavo di manovrare del mio meglio la pesante carriola. Si udì un fremito di
motore, ed ecco, una SS in motocicletta entrò nel campo. Come sempre, quando
vedevamo i loro visi duri, mi sentii sommergere di terrore e di odio. Era
troppo tardi per scomparire, e non volevo abbandonare la stufa. Il regolamento
del Lager prescriveva di mettersi sull’attenti e di scoprirsi il capo. Io non
avevo cappello ed ero impacciato dalla coperta. Mi allontanai qualche passo
dalla carriola e feci una specie di goffo inchino. Il tedesco passò oltre senza
vedermi, svoltò attorno a una baracca e se ne andò. Seppi più tardi quale
pericolo avevo corso.
Raggiunsi finalmente la soglia
della nostra baracca, e sbarcai la stufa nelle mani di Charles. Ero senza fiato
per lo sforzo, vedevo danzare grandi macchie nere.
Si trattava di metterla in opera.
Avevamo tutti e tre le mani paralizzate, e il metallo gelido si incollava alla
pelle delle dita, ma era urgente che la stufa funzionasse, per scaldarci e per
bollire le patate. Avevamo trovato legna e carbone, e anche brace proveniente
dalle baracche bruciate.
Quando fu riparata la finestra
sfondata, e la stufa cominciò a diffondere calore, parve che in ognuno qualcosa
si distendesse, e allora avvenne che Towarowski (un franco-polacco di ventitre anni,
tifoso) propose agli altri malati di offrire ciascuno una fetta di pane a noi
tre che lavoravamo, e la cosa fu accettata.
Soltanto un giorno prima un
simile avvenimento non sarebbe stato concepibile. La legge del Lager diceva:
«mangia il tuo pane, e, se puoi, quello del tuo vicino», e non lasciava posto
per la gratitudine. Voleva ben dire che il Lager era morto.
Fu quello il primo gesto umano
che avvenne fra noi. Credo che si potrebbe fissare a quel momento l’inizio del
processo per cui, noi che non siamo morti, da Häftlinge siamo lentamente
ridiventati uomini.
Arthur si era ripreso abbastanza
bene, ma da allora evitò sempre di esporsi al freddo; si assunse la
manutenzione della stufa, la cottura delle patate, la pulizia della camera e
l’assistenza ai malati. Charles ed io ci dividemmo i vari servizi all’esterno.
C’era ancora un’ora di luce: una sortita ci fruttò mezzo litro di spirito e un
barattolo di lievito di birra, buttato nella neve da chissà chi; facemmo una
distribuzione di patate bollite e di un cucchiaio a testa di lievito. Pensavo
vagamente che potesse giovare contro l’avitaminosi.
Venne l’oscurità; di tutto il
campo la nostra era l’unica camera munita di stufa, del che eravamo assai
fieri. Molti malati di altre sezioni si accalcavano alla porta, ma la statura
imponente di Charles li teneva a bada. Nessuno, né noi né loro, pensava che la
promiscuità inevitabile coi nostri malati rendeva pericolosissimo il soggiorno
nella nostra camera, e che ammalarsi di difterite in quelle condizioni era più
sicuramente mortale che saltare da un terzo piano.
Io stesso, che ne ero conscio,
non mi soffermavo troppo su questa idea: da troppo tempo mi ero abituato a
pensare alla morte per malattia come ad un evento possibile, e in tal caso
ineluttabile, e comunque al di fuori di ogni possibile nostro intervento. E
neppure mi passava per il capo che avrei potuto stabilirmi in un’altra camera,
in un’altra baracca con minor pericolo di contagio; qui era la stufa, opera
nostra, che diffondeva un meraviglioso tepore; e qui avevo un letto; e infine,
ormai, un legame ci univa, noi, gli undici malati della Infektionsabteilung.
Si sentiva di rado un fragore
vicino e lontano di artiglieria, e a intervalli, un crepitio di fucili automatici.
Nell’oscurità rotta solo dal rosseggiare della brace, Charles, Arthur ed io
sedevamo fumando sigarette di erbe aromatiche trovate in cucina, e parlando di
molte cose passate e future. In mezzo alla sterminata pianura piena di gelo e
di guerra, nella cameretta buia pullulante di germi, ci sentivamo in pace con
noi e col mondo. Eravamo rotti di fatica, ma ci pareva, dopo tanto tempo, di
avere finalmente fatto qualcosa di utile; forse come Dio dopo il primo giorno
della creazione.
20 gennaio. Giunse l’alba, ed ero io di turno per l’accensione
della stufa. Oltre alla debolezza generale, le articolazioni dolenti mi
ricordavano a ogni momento che la mia scarlattina era lungi dall’essere
scomparsa. Il pensiero di dovermi tuffare nell’aria gelida in cerca di fuoco
per le altre baracche mi faceva tremare di ribrezzo.
Mi rammentai delle pietrine;
cosparsi di spirito un foglietto di carta, e con pazienza da una pietrina vi
raschiai sopra un mucchietto di polvere nera, poi presi a raschiare più forte
la pietrina col coltello. Ed ecco: dopo qualche scintilla il mucchietto
deflagrò, e dalla carta si levò la fiammella pallida dell’alcool.
Arthur discese entusiasta dal
letto e fece scaldare tre patate a testa fra quelle bollite il giorno avanti;
dopo di che, affamati e pieni di brividi, Charles ed io partimmo nuovamente in
perlustrazione per il campo in sfacelo.
Ci restavano viveri (e cioè
patate) per due giorni soltanto; per l’acqua eravamo ridotti a fondere la neve,
operazione penosa per la mancanza di grandi recipienti, da cui si otteneva un
liquido nerastro e torbido che era necessario filtrare.
Il campo era silenzioso. Altri
spettri affamati si aggiravano come noi in esplorazione: barbe ormai lunghe,
occhi incavati, membra scheletrite e giallastre fra i cenci. Malfermi sulle
gambe, entravano e uscivano dalle baracche deserte, asportandone gli oggetti
più vari: scuri, secchi, mestoli, chiodi; tutto poteva servire, e i più
lungimiranti già meditavano fruttuosi mercati con i polacchi della campagna
circostante.
Nella cucina, due si
accapigliavano per le ultime decine di patate putride. Si erano afferrati per
gli stracci e si percuotevano con curiosi gesti lenti e incerti, vituperandosi
in yiddisch fra le labbra gelate.
Nel cortile del magazzino stavano
due grandi mucchi di cavoli e di rape (le grosse rape insipide, base della nostra
alimentazione). Erano così gelati che non si potevano staccare se non col
piccone. Charles ed io ci avvicendammo, tendendo tutte le nostre per ogni
colpo, e ne estraemmo una cinquantina di chili. Vi fu anche altro: Charles
trovò un pacco di sale e («une fameuse trouvaille!») un bidone d’acqua di forse
mezzo ettolitro, allo stato di ghiaccio massiccio.
Caricammo ogni cosa su di un
carrettino (servivano prima per distribuire il rancio alle baracche: ve n’era
un gran numero abbandonati ovunque), e rientrammo spingendolo faticosamente
sulla neve.
Per quel giorno ci accontentammo
ancora di patate bollite e fette di rapa arrostite sulla stufa, ma per
l’indomani Arthur ci promise importanti innovazioni.
Nel pomeriggio andai all’ex
ambulatorio, in cerca di qualcosa di utile. Ero stato preceduto: tutto era
stato manomesso da saccheggiatori inesperti. Non più una bottiglia intera, sul
pavimento uno strato di stracci, sterco e materiale di medicazione, un cadavere
nudo e contorto. Ma ecco qualcosa che ai miei predecessori era sfuggito: una
batteria da autocarro. Toccai i poli col coltello: una piccola scintilla. Era
carica.
A sera la nostra camera aveva la
luce.
Stando a letto, vedevo dalla
finestra un lungo tratto di strada: vi passava a ondate, già da tre giorni, la
Wehrmacht in fuga. Autoblinde, carri «tigre» mimetizzati in bianco, tedeschi a
cavallo, tedeschi in bicicletta, tedeschi a piedi, armati e disarmati. Si udiva
nella notte il fracasso dei cingoli molto prima che i carri fossero visibili.
Chiedeva Charles: - Ça roule
encore?
- Ça roule toujours.
Sembrava non dovesse mai finire.
21 gennaio. Invece finì. Coll’alba del 21 la pianura ci apparve
deserta e rigida, bianca a perdita d’occhio sotto il volo dei corvi,
mortalmente triste.
Avrei quasi preferito vedere
ancora qualcosa in movimento. Anche i civili polacchi erano scomparsi,
appiattati chissà dove. Pareva che perfino il vento si fosse arrestato. Avrei
desiderato una cosa soltanto: restare a letto sotto le coperte, abbandonarmi
alla stanchezza totale di muscoli, nervi e volontà; aspettare che finisse, o
che non finisse, era la stessa cosa, come un morto.
Ma già Charles aveva acceso la
stufa, l’uomo Charles alacre, fiducioso e amico, e mi chiamava al lavoro:
- Vas-y, Primo, descends-toi de
là-haut; il y a Jules à attraper par les oreilles…
«Jules» era il secchio della
latrina, che ogni mattina bisognava afferrare per i manici, portare all’esterno
e rovesciare nel pozzo nero: era questa la prima bisogna della giornata, e se
si pensa che non era possibile lavarsi le mani, e che tre dei nostri erano
ammalati di tifo, si comprende che non era un lavoro gradevole.
Dovevamo inaugurare i cavoli e le
rape. Mentre io andavo a cercare legna, e Charles a raccogliere neve da
sciogliere, Arthur mobilitò i malati che potevano star seduti, perché collaborassero
nella mondatura. Towarowski, Sertelet, Alcalai e Schenck risposero all’appello.
Anche Sertelet era un contadino
dei Vosgi, di vent’anni; pareva in buone condizioni, ma di giorno in giorno la
sua voce andava assumendo un sinistro timbro nasale, a ricordarci che la differite
raramente perdona.
Alcalai era un vetraio ebreo di
Tolosa; era molto tranquillo e assennato, soffriva di risipola al viso.
Schenck era un commerciante
slovacco, ebreo: convalescente di tifo, aveva un formidabile appetito. Così
pure Towarowski, ebreo franco-polacco, sciocco e ciarliero, ma utile alla
nostra comunità per il suo comunicativo ottimismo.
Mentre dunque i malati lavoravano
di coltello, ciascuno seduto sulla sua cuccetta, Charles ed io ci dedicammo
alla ricerca di una sede possibile per le operazioni di cucina.
Una indescrivibile sporcizia
aveva invaso ogni reparto del campo. Colmate tutte le latrine, della cui
manutenzione naturalmente nessuno più si curava, i dissenterici (erano più di
un centinaio) avevano insozzato ogni angolo del Ka-Be, riempito tutti i secchi,
tutti i bidoni già destinati al rancio, tutte le gamelle. Non si poteva muovere
un passo senza sorvegliare il piede; al buio era impossibile spostarsi. Pur
soffrendo per il freddo, che si manteneva acuto, pensavamo con raccapriccio a
quello che sarebbe accaduto se fosse sopraggiunto il disgelo: le infezioni
avrebbero dilagato senza riparo, il fetore si sarebbe fatto soffocante, e
inoltre, sciolta la neve, saremmo rimasti definitivamente senz’acqua.
Dopo una lunga ricerca, trovammo
infine, in un locale già adibito a lavatoio, pochi palmi di pavimento non
eccessivamente imbrattato. Vi accendemmo un fuoco vivo, poi, per risparmiare tempo
e complicazioni, ci disinfettammo le mani frizionandole con cloramina mista a
neve.
La notizia che una zuppa era in
cottura si sparse rapidamente fra la folla dei semivivi; si formò sulla porta
un assembramento di visi famelici. Charles, il mestolo levato, tenne loro un
vigoroso breve discorso che, pur essendo in francese, non abbisognava di
traduzione.
I più si dispersero, ma uno si
fece avanti: era un parigino, sarto di classe (diceva lui), ammalato di
polmoni. In cambio di un litro di zuppa si sarebbe messo a nostra disposizione
per tagliarci abiti dalle numerose coperte rimaste in campo.
Maxime si dimostrò veramente
abile. Il giorno dopo Charles ed io possedevamo giacca, brache e guantoni di ruvido
tessuto a colori vistosi.
A sera, dopo la prima zuppa
distribuita con entusiasmo e divorata con avidità, il grande silenzio della
pianura fu rotto. Dalle nostre cuccette, troppo stanchi per essere
profondamente inquieti, tendevamo l’orecchio agli scoppi di misteriose
artiglierie, che parevano localizzate in tutti i punti dell’orizzonte, e ai
sibili dei proiettili sui nostri capi.
Io pensavo che la vita fuori era
bella, e sarebbe ancora stata bella, e sarebbe stato veramente un peccato
lasciarsi sommergere adesso. Svegliai quelli tra i malati che sonnecchiavano, e
quando fui sicuro che tutti ascoltavano, dissi loro, in francese prima, nel mio
migliore tedesco poi, che tutti dovevano pensare ormai di ritornare a casa, e
che, per quanto dipendeva da noi, alcune cose era necessario fare, altre
necessario evitare. Che ognuno conservasse attentamente la sua propria gamella
e il cucchiaio; che nessuno offrisse ad altri la zuppa che eventualmente gli
fosse avanzata; nessuno scendesse dal letto se non per andare alla latrina; chi
avesse bisogno di un qualsiasi servizio, non si rivolgesse ad altri che a noi
tre; Arthur particolarmente era incaricato di vigilare sulla disciplina e
sull’igiene, e doveva ricordare che era meglio lasciare gamelle e cucchiai
sporchi, piuttosto che lavarli col pericolo di scambiare quelli di un difterico
con quelli di un tifoso.
Ebbi l’impressione che i malati
fossero ormai troppo indifferenti a ogni cosa per curarsi di quanto avevo
detto; ma avevo molta fiducia nella diligenza di Arthur.
22 gennaio. Se è coraggioso chi affronta a cuor leggero un grave
pericolo, Charles ed io quel mattino fummo coraggiosi. Estendemmo le nostre
esplorazioni al campo delle SS, subito fuori del reticolato elettrico.
Le guardie del campo dovevano
essere partite con molta fretta. Trovammo sui tavoli piatti pieni per metà di
minestra ormai congelata, che divorammo con intenso godimento; boccali ancor
colmi di birra trasformata in ghiaccio giallastro, una scacchiera con una
partita incominciata. Nelle camerate, una quantità di roba preziosa.
Ci caricammo una bottiglia di
vodka, medicinali vari, giornali e riviste e quattro ottime coperte imbottite,
una delle quali è oggi nella mia casa di Torino. Lieti e incoscienti, riportammo
nella cameretta il frutto della sortita, affidandolo all’amministrazione di
Arthur. Solo a sera si seppe quanto era successo forse mezz’ora più tardi.
Alcune SS, forse disperse, ma
armate, penetrarono nel campo abbandonato. Trovarono che diciotto francesi si
erano stabiliti nel refettorio della SS-Waffe. Li uccisero tutti metodicamente,
con un colpo alla nuca, allineando poi i corpi contorti sulla neve della
strada; indi se ne andarono. I diciotto cadaveri restarono esposti fino all’arrivo
dei russi; nessuno ebbe la forza di dar loro sepoltura.
D’altronde, in tutte le baracche
v’erano ormai letti occupati da cadaveri, rigidi come legno, che nessuno si
curava più di rimuovere. La terra era troppo gelata perché vi si potessero
scavare fosse; molti cadaveri furono accatastati in una trincea, ma già fin dai
primi giorni il mucchio emergeva dallo scavo ed era turpemente visibile dalla
nostra finestra.
Solo una parete di legno ci
separava dal reparto dei dissenterici. Qui molti erano i moribondi, molti i
morti. Il pavimento era ricoperto da uno strato di escrementi congelati.
Nessuno aveva più forza di uscire dalle coperte per cercare cibo, e chi prima
lo aveva fatto non era ritornato a soccorrere i compagni. In uno stesso letto,
avvinghiati per resistere meglio al freddo, proprio accanto alla parete divisoria,
stavano due italiani: li sentivo spesso parlare, ma poiché io invece non
parlavo che francese, per molto tempo non si accorsero della mia presenza.
Udirono quel giorno per caso il mio nome, pronunziato all’italiana da Charles,
e da allora non smisero di gemere e di implorare.
Naturalmente avrei voluto
aiutarli, avendone i mezzi e la forza; se non altro per far smettere
l’ossessione delle loro grida. A sera, quando tutti i lavori furono finiti,
vincendo la fatica e il ribrezzo, mi trascinai a tentoni per il corridoio
lercio e buio, fino al loro reparto, con una gamella d’acqua e gli avanzi della
nostra zuppa del giorno. Il risultato fu che da allora, attraverso la sottile
parete, l’intera sezione diarrea chiamò giorno e notte il mio nome, con le
inflessioni di tutte le lingue d’Europa, accompagnato da preghiere
incomprensibili, senza che io potessi comunque porvi riparo. Mi sentivo
prossimo a piangere, li avrei maledetti.
La notte riservò brutte sorprese.
Lakmaker, della cuccetta sotto la
mia, era uno sciagurato rottame umano. Era (od era stato) un ebreo olandese di
diciassette anni, alto, magro e mite. Era in letto da tre mesi, non so come
fosse sfuggito alle selezioni. Aveva avuto successivamente il tifo e la
scarlattina; intanto gli si era palesato un grave vizio cardiaco ed era brutto
di piaghe da decubito, tanto che non poteva ormai giacere che sul ventre. Con
tutto ciò, un appetito feroce; non parlava che olandese, nessuno di noi era in grado
di comprenderlo.
Forse causa di tutto fu la
minestra di cavoli e rape, di cui Lakmaker aveva voluto due razioni. A metà
notte gemette, poi si buttò dal letto. Cercava di raggiungere la latrina, ma
era troppo debole e cadde a terra, piangendo e gridando forte.
Charles accese la luce
(l’accumulatore si dimostrò provvidenziale) e potemmo constatare la gravità
dell’incidente. Il letto del ragazzo e il pavimento erano imbrattati. L’odore
nel piccolo ambiente diventava rapidamente insopportabile. Non avevamo che una
minima scorta d’acqua, e non coperte né pagliericci di ricambio. E il
poveretto, tifoso, era un terribile focolaio di infezione; né si poteva certo
lasciarlo tutta la notte sul pavimento a gemere e tremare di freddo in mezzo
alla lordura.
Charles discese dal letto e si
rivestì in silenzio. Mentre io reggevo il lume, ritagliò col coltello dal
pagliericcio e dalle coperte tutti i punti sporchi; sollevò da terra Lakmaker
colla delicatezza di una madre, lo ripulì alla meglio con paglia estratta dal
saccone, e lo ripose di peso nel letto rifatto, nell’unica posizione in cui il
disgraziato poteva giacere; raschiò il pavimento con un pezzo di lamiera;
stemperò un po’ di cloramina, e infine cosparse di disinfettante ogni cosa e
anche se stesso.
Io misuravo la sua abnegazione
dalla stanchezza che avrei dovuto superare in me per fare quanto lui faceva.
23 gennaio. Le nostre patate
erano finite. Circolava da giorni per le baracche la voce che un enorme silo di
patate fosse situato da qualche parte, fuori del filo spinato, non lontano dal
campo.
Qualche pioniere ignorato deve
aver fatto pazienti ricerche, o qualcuno doveva sapere con precisione il luogo:
di fatto, il mattino del 23 un tratto di filo spinato era stato abbattuto, e
una doppia processione di miserabili usciva ed entrava dall’apertura.
Charles ed io partimmo, nel vento
della pianura livida. Fummo oltre la barriera abbattuta.
- Dis donc, Primo, on est dehors!
Era così: per la prima volta dal
giorno del mio arresto, mi trovavo libero, senza custodi armati, senza reticolati
fra me e la mia casa.
A forse quattrocento metri dal
campo, giacevano le patate: un tesoro. Due fosse lunghissime, piene di patate,
e ricoperte di terra alternata con paglia a difesa dal gelo. Nessuno sarebbe
più morto di fame.
Ma l’estrazione non era lavoro da
nulla. A causa del gelo, la superficie del terreno era dura come marmo. Con
duro lavoro di piccone si riusciva a perforare la crosta e a mettere a nudo il
deposito; ma i più preferivano introdursi nei fori abbandonati da altri,
spingendosi molto profondi e passando le patate ai compagni che stavano
all’esterno.
Un vecchio ungherese era stato
sorpreso colà dalla morte. Giaceva irrigidito nell’atto dell’affamato: capo e
spalle sotto il cumulo di terra, il ventre nella neve, tendeva le mani alle
patate. Chi venne dopo spostò il cadavere di un metro, e riprese il lavoro
attraverso l’apertura resasi libera.
Da allora il nostro vitto
migliorò. Oltre alle patate bollite e alla zuppa di patate, offrimmo ai nostri
malati frittelle di patate, su ricetta di Arthur: si raschiano patate crude con
altre bollite e disfatte; la miscela si arrostisce su di una lamiera rovente.
Avevano sapore di fuliggine.
Ma non ne poté godere Sertelet,
il cui male progrediva. Oltre a parlare con timbro sempre più nasale, quel
giorno non riuscì più inghiottire a dovere alcun alimento: qualcosa gli si era
guastato in gola, ogni boccone minacciava di soffocarlo.
Andai a cercare un medico
ungherese rimasto come malato nella baracca di fronte. Come udì parlare di
difterite, fece tre passi indietro e mi ingiunse di uscire.
Per pure ragioni di propaganda,
feci a tutti instillazioni nasali di olio canforato. Assicurai Sertelet che ne
avrebbe tratto giovamento; io stesso cercavo di convincermene.
24 gennaio. Libertà. La breccia nel filo spinato ce ne dava
l’immagine concreta. A porvi mente con attenzione voleva dire non più tedeschi,
non più selezioni, non lavoro, non botte, non appelli, e forse, più tardi, il
ritorno.
Ma ci voleva sforzo per
convincersene e nessuno aveva tempo di goderne. Intorno tutto era distruzione e
morte.
Il mucchio di cadaveri, di fronte
alla nostra finestra, rovinava ormai fuori della fossa. Nonostante le patate,
la debolezza di tutti era estrema: nel campo nessun ammalato guariva, molti
invece si ammalavano di polmonite e diarrea; quelli che non erano stati grado
di muoversi, o non avevano avuto l’energia di farlo, giacevano torpidi nelle cuccette,
rigidi dal freddo, e nessuno si accorgeva di quando morivano.
Gli altri erano tutti
spaventosamente stanchi: dopo mesi e anni di Lager, non sono le patate che
possono rimettere in forza un uomo. Quando, a cottura ultimata, Charles ed io
avevamo trascinato i venticinque litri di zuppa quotidiana dal lavatoio alla
camera, dovevamo poi gettarci ansanti sulla cuccetta, mentre Arthur, diligente
e domestico, faceva la ripartizione, curando che avanzassero le tre razioni di
«rabiot pour les travailleurs» e un po’ di fondo «pour les italiens d’à côté».
Nella seconda camera di
Infettivi, anche essa attigua alla nostra e abitata in maggioranza da
tubercolotici, la situazione era ben diversa. Tutti quelli che lo avevano potuto,
erano andati a stabilirsi in altre baracche. I compagni più gravi e più deboli
si spegnevano a uno a uno in solitudine.
Vi ero entrato un mattino per
cercare in prestito un ago. Un malato rantolava in una delle cuccette
superiori. Mi udì, si sollevò a sedere, poi si spenzolò a capofitto oltre la
sponda, verso me, col busto e le braccia rigidi e gli occhi bianchi. Quello
della cuccetta di sotto, automaticamente, tese in alto le braccia per sostenere
quel corpo, si accorse allora che era morto. Cedette lentamente sotto il peso,
l’altro scivolò a terra e vi rimase. Nessuno sapeva il suo nome.
Ma nella baracca 14 era successo
qualcosa di nuovo. Vi erano ricoverati gli operati, alcuni dei quali in
discrete condizioni. Essi organizzarono una spedizione al campo degli inglesi
prigionieri di guerra, che si presumeva fosse stato evacuato. Fu una fruttuosa
impresa. Ritornarono vestiti in kaki, con un carretto pieno di meraviglie mai
viste: margarina, polveri per budino, lardo, farina di soia, acquavite.
A sera, nella baracca 14 si
cantava.
Nessuno di noi si sentiva la
forza di fare i due chilometri di strada al campo inglese e ritornare col
carico. Ma, indirettamente, la fortunata spedizione ritornò di vantaggio a
molti. La ineguale ripartizione dei beni provocò un rifiorire di industria e di
commercio. Nella nostra cameretta dall’atmosfera mortale, nacque una fabbrica
di candele con stoppino imbevuto di acido borico, colate in forme di cartone. I
ricchi della baracca 14 assorbivano l’intera nostra produzione, pagandoci in
lardo e farina.
Io stesso avevo trovato il blocco
di cera vergine nell’Elektromagazin; ricordo l’espressione di disappunto di
coloro che me lo videro portar via, e il dialogo che ne seguì:
- Che te ne vuoi fare?
Non era il caso di svelare un
segreto di fabbricazione; sentii me stesso rispondere con le parole che avevo
spesso udite dai vecchi del campo, e che contengono il loro vanto preferito: di
essere «buoni prigionieri», gente adatta, che se la sa sempre cavare; - Ich
verstehe verschiedene Sachen... - (Me ne intendo di varie cose...)
25 gennaio. Fu la volta di Sómogyi. Era un chimico ungherese sulla
cinquantina, magro, alto e taciturno. Come l’olandese, era convalescente di
tifo e di scarlattina; ma sopravvenne qualcosa di nuovo. Fu preso da una febbre
intensa. Da forse cinque giorni non aveva detto parola: aprì bocca quel giorno
e disse con voce ferma:
- Ho una razione di pane sotto il
saccone. Dividetela voi tre. Io non mangerò più.
Non trovammo nulla da dire, ma
per allora non toccammo il pane. Gli si era gonfiata una metà del viso. Finché
conservò coscienza, rimase chiuso in un silenzio aspro.
Ma a sera, e per tutta la notte,
e per due giorni senza interruzione, il silenzio fu sciolto dal delirio.
Seguendo un ultimo interminabile sogno di remissione e di schiavitù, prese a
mormorare «Jawohl» ad ogni emissione di respiro; regolare e costante come una
macchina, «Jawohl» ad ogni abbassarsi della povera rastrelliera delle costole, migliaia
di volte, tanto da far venire voglia di scuoterlo, di soffocarlo, o che almeno
cambiasse parola.
Non ho mai capito come allora
quanto sia laboriosa la morte di un uomo.
Fuori ancora il grande silenzio.
Il numero dei corvi era molto aumentato, e tutti sapevano perché. Solo a lunghi
intervalli si risvegliava il dialogo dell’artiglieria.
Tutti si dicevano a vicenda che i
russi presto, subito, sarebbero arrivati; tutti lo proclamavano, tutti ne erano
certi, ma nessuno riusciva a farsene serenamente capace. Perché nei Lager si
perde l’abitudine di sperare, e anche la fiducia nella propria ragione. In
Lager pensare è inutile, perché gli eventi si svolgono per lo più in modo
imprevedibile; ed è dannoso, perché mantiene viva una sensibilità che è fonte
di dolore, e che qualche provvida legge naturale ottunde quando le sofferenze
sorpassano un certo limite.
Come della gioia, della paura,
del dolore medesimo, così anche dell’attesa ci si stanca. Arrivati al 25
gennaio, rotti da otto giorni i rapporti con quel feroce mondo che pure era un
mondo, i più fra noi erano troppo esausti perfino per attendere.
A sera, intorno alla stufa,
ancora una volta Charles, Arthur ed io ci sentimmo ridiventare uomini. Potevamo
parlare di tutto. Mi appassionava il discorso di Arthur sul modo come si
passano le domeniche a Provenchères nei Vosgi, e Charles piangeva quasi quando
io gli raccontai dell’armistizio in Italia, dell’inizio torbido e disperato
della resistenza partigiana, dell’uomo che ci aveva traditi e della nostra
cattura sulle montagne.
Nel buio, dietro e sopra di noi,
gli otto malati non perdevano una sillaba, anche quelli che non capivano il francese.
Soltanto Sómogyi si accaniva a confermare alla morte la sua dedizione.
26 gennaio. Noi giacevamo in un mondo di morti e di larve. L’ultima
traccia di civiltà era sparita intorno a noi e dentro di noi. L’opera di
bestializzazione, intrapresa dai tedeschi trionfanti, era stata portata a compimento
dai tedeschi disfatti.
È uomo chi uccide, è uomo chi fa
o subisce ingiustizia; non è uomo chi, perso ogni ritegno, divide il letto con
un cadavere. Chi ha atteso che il suo vicino finisse di morire per togliergli
un quarto di pane, è, pur senza sua colpa, più lontano dal modello dell’uomo
pensante, che il più rozzo pigmeo e il sadico più atroce.
Parte del nostro esistere ha sede
nelle anime di chi ci accosta: ecco perché è non-umana l’esperienza di chi ha
vissuto giorni in cui l’uomo è stato una cosa agli occhi dell’uomo. Noi tre ne
fummo in gran parte immuni, e ce ne dobbiamo mutua gratitudine; perciò la mia
amicizia con Charles resisterà al tempo.
Ma a migliaia di metri sopra di
noi, negli squarci fra le nuvole grige, si svolgevano i complicati miracoli dei
duelli aerei. Sopra noi, nudi impotenti inermi, uomini del nostro tempo
cercavano la reciproca morte coi più raffinati strumenti. Un loro gesto del
dito poteva provocare la distruzione del campo intero, annientare migliaia di
uomini; mentre la somma di tutte le nostre energie e volontà non sarebbe
bastata a prolungare di un minuto la vita di uno solo di noi.
La sarabanda cessò a notte, e la
camera fu di nuovo piena del monologo di Sómogyi.
In piena oscurità mi trovai
sveglio di soprassalto. «L’pauv’ vieux» taceva: aveva finito. Con l’ultimo
sussulto di vita si era buttato a terra dalla cuccetta: ho udito l’urto delle
ginocchia, delle anche, delle spalle e del capo.
- La mort l’a chassé de son lit,
- definì Arthur.
Non potevamo certo portarlo fuori
nella notte. Non c i restava che riaddormentarci.
27 gennaio. L’alba. Sul pavimento, l’infame tumulto di membra
stecchite, la cosa Sómogyi.
Ci sono lavori più urgenti: non
ci si può lavare, non possiamo toccarlo che dopo di aver cucinato e mangiato. E
inoltre, «... rien de si dégoûtant que les débordements», dice giustamente Charles;
bisogna vuotare la latrina. I vivi sono più esigenti; i morti possono
attendere. Ci mettemmo al lavoro come ogni giorno.
I russi arrivarono mentre Charles
ed io portavamo Sómogyi poco lontano. Era molto leggero. Rovesciammo la barella
sulla neve grigia.
Charles si tolse il berretto. A
me dispiacque di non avere berretto.
Degli undici della
Infektionsabteilung, fu Sómogyi il solo che morì nei dieci giorni. Sertelet,
Cagnolati, Towarowski, Lakmaker e
Dorget (di quest’ultimo non ho finora parlato; era un industriale francese che,
dopo operato di peritonite, si era ammalato di difterite nasale), sono morti
qualche settimana più tardi, nell’infermeria russa provvisoria di Auschwitz. Ho
incontrato a Katowice, in aprile, Schenck e Alcalai in buona salute. Arthur ha
raggiunto felicemente la sua famiglia, e Charles ha ripreso la sua professione
di maestro; ci siamo scambiati lunghe lettere e spero di poterlo ritrovare un
giorno.
Avigliana-Torino,
dicembre 1945 - gennaio 1947
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