Nel secondo capitolo del suo romanzo, Primo Levi entra ad
Auschwitz e ne conosce poco alla volta gli incomprensibili meccanismi: la
spogliazione, la tosatura, la doccia, il numero tatuato sul braccio che diventa
il nome del prigioniero, le baracche (i Blocks), l’intero campo, gli appelli, i
divieti, il lavoro…
In pochi giorni capisce cosa vuol dire “giacere sul fondo”.
SUL FONDO
Il viaggio non durò che una
ventina di minuti. Poi l’autocarro si è fermato, e si è vista una grande porta,
e sopra una scritta vivamente illuminata (il suo ricordo ancora mi percuote nei
sogni): ARBEIT MACHT FREI, il lavoro rende liberi.
Siamo scesi, ci hanno fatti entrare
in una camera vasta e nuda, debolmente riscaldata. Che sete abbiamo! Il debole
fruscio dell’acqua nei radiatori ci rende feroci: sono quattro giorni che non
beviamo. Eppure c’è un rubinetto: sopra un cartello, che dice che è proibito
bere perché l’acqua è inquinata. Sciocchezze, a me pare ovvio che il cartello è
una beffa, «essi» sanno che noi moriamo di sete, e ci mettono in una camera e
c’è un rubinetto, e Wassertrinken verboten. Io bevo, e incito i compagni a
farlo; ma devo sputare, l’acqua è tiepida e dolciastra, ha odore di palude.
Questo è l’inferno. Oggi, ai
nostri giorni, l’inferno deve essere così, una camera grande e vuota, e noi
stanchi stare in piedi, e c’è un rubinetto che gocciola e l’acqua non si può
bere, e noi aspettiamo qualcosa di certamente terribile e non succede niente e
continua a non succedere niente. Come pensare? Non si può più pensare, è come
essere già morti. Qualcuno si siede per terra. Il tempo passa goccia a goccia.
Non siamo morti; la porta si è
aperta ed è entrata una SS, sta fumando. Ci guarda senza fretta, chiede: - Wer
kann Deutsch? (1) - Si fa avanti uno fra noi che non ho mai visto, si chiama
Flesch; sarà lui il nostro interprete. La SS fa un lungo discorso pacato:
l’interprete traduce. Bisogna mettersi in fila per cinque, a intervalli di due
metri fra uomo e uomo; poi bisogna spogliarsi e fare un fagotto degli abiti in
un certo modo, gli indumenti di lana da una parte e tutto il resto dall’altra,
togliersi le scarpe ma far molta attenzione di non farcele rubare.
Rubare da chi? Perché ci
dovrebbero rubare le scarpe? E i nostri documenti, il poco che abbiamo in
tasca, gli orologi? Tutti guardiamo l’interprete, e l’interprete interrogò il
tedesco, e il tedesco fumava e lo guardò da parte a parte come se fosse stato
trasparente, come se nessuno avesse parlato.
Non avevo mai visto uomini
anziani nudi. Il signor Bergmann portava il cinto erniario (2), e chiese
all’interprete se doveva posarlo, e l’interprete esitò. Ma il tedesco comprese,
e parlò seriamente all’interprete indicando qualcuno; abbiamo visto l’interprete
trangugiare, e poi ha detto: - Il maresciallo dice di deporre il cinto, e che
le sarà dato quello del signor Coen -. Si vedevano le parole uscire amare dalla
bocca di Flesch, quello era il modo di ridere del tedesco.
Poi viene un altro tedesco, e
dice di mettere le scarpe in un certo angolo, e noi le mettiamo, perché ormai è
finito e ci sentiamo fuori del mondo e l’unica cosa è obbedire. Viene uno con
la scopa e scopa via tutte le scarpe, via fuori dalla porta in un mucchio. È
matto, le mescola tutte, novantasei paia, poi saranno spaiate. La porta dà
all’esterno, entra un vento gelido e noi siamo nudi e ci copriamo il ventre con
le braccia. Il vento sbatte e richiude la porta; il tedesco la riapre, e sta a
vedere con aria assorta come ci contorciamo per ripararci dal vento uno dietro
l’altro; poi se ne va e la richiude.
Adesso è il secondo atto. Entrano
con violenza quattro con rasoi, pennelli e tosatrici, hanno pantaloni e giacche
a righe, un numero cucito sul petto; forse sono della specie di quegli altri di
stasera (stasera o ieri sera?); ma questi sono robusti e floridi. Noi facciamo
molte domande, loro invece ci agguantano e in un momento ci troviamo rasi e
tosati. Che facce goffe abbiamo senza capelli! I quattro parlano una lingua che
non sembra di questo mondo, certo non è tedesco, io un poco il tedesco lo
capisco.
Finalmente si apre un’altra porta:
eccoci tutti chiusi, nudi tosati e in piedi, coi piedi nell’acqua, è una sala
di docce. Siamo soli, a poco a poco lo stupore si scioglie e parliamo, e tutti
domandano e nessuno risponde. Se siamo nudi in una sala di docce, vuol dire che
faremo la doccia. Se faremo la doccia, è perché non ci ammazzano ancora. E
allora perché ci fanno stare in piedi, e non ci dànno da bere, e nessuno ci
spiega niente, e non abbiamo né scarpe né vestiti ma siamo tutti nudi coi piedi
nell’acqua, e fa freddo ed è cinque giorni che viaggiamo e non possiamo neppure
sederci.
E le nostre donne?
L’ingegner Levi mi chiede se
penso che anche le nostre donne siano così come noi in questo momento, e dove
sono, e se le potremo rivedere. Io rispondo che sì, perché lui è sposato e ha
una bambina; certo le rivedremo. Ma ormai la mia idea è che tutto questo è una
grande macchina per ridere di noi e vilipenderci, e poi è chiaro che ci uccidono,
chi crede di vivere è pazzo, vuol dire che ci è cascato, io no, io ho capito
che presto sarà finita, forse in questa stessa camera, quando si saranno
annoiati di vederci nudi, ballare da un piede all’altro e provare ogni tanto a
sederci sul pavimento, ma ci sono tre dita d’acqua fredda e non ci possiamo
sedere.
Andiamo in su e in giù senza
costrutto, e parliamo, ciascuno parla con tutti gli altri, questo fa molto
chiasso. Si apre la porta, entra un tedesco, è il maresciallo di prima; parla
breve, l’interprete traduce. - Il maresciallo dice che dovete fare silenzio,
perché questa non è una scuola rabbinica -. Si vedono le parole non sue, le
parole cattive, torcergli la bocca uscendo, come se sputasse un boccone disgustoso.
Lo preghiamo di chiedergli che cosa aspettiamo, quanto tempo ancora staremo
qui, delle nostre donne, tutto: ma lui dice di no, che non vuol chiedere.
Questo Flesch, che si adatta molto a malincuore a tradurre in italiano frasi
tedesche piene di gelo, e rifiuta di volgere in tedesco le nostre domande
perché sa che è inutile, è un ebreo tedesco sulla cinquantina, che porta in
viso la grossa cicatrice di una ferita riportata combattendo contro gli
italiani sul Piave. È un uomo chiuso e taciturno, per il quale provo un
istintivo rispetto perché sento che ha cominciato a soffrire prima di noi.
Il tedesco se ne va, e noi adesso
stiamo zitti, quantunque ci vergogniamo un poco di stare zitti. Era ancora notte,
ci chiedevamo se mai sarebbe venuto il giorno. Di nuovo si aprì la porta, ed
entrò uno vestito a righe. Era diverso dagli altri, più anziano, cogli
occhiali, un viso più civile, ed era molto meno robusto. Ci parla, e parla
italiano.
Oramai siamo stanchi di stupirci.
Ci pare di assistere a qualche dramma pazzo, di quei drammi in cui vengono
sulla scena le streghe, lo Spirito Santo e il demonio. Parla italiano
malamente, con un forte accento straniero. Ha fatto un lungo discorso, è molto
cortese, cerca di rispondere a tutte le nostre domande.
Noi siamo a Monowitz, vicino ad
Auschwitz, in Alta Slesia: una regione abitata promiscuamente da tedeschi e
polacchi. Questo campo è un campo di lavoro, in tedesco si dice Arbeitslager;
tutti i prigionieri (sono circa diecimila) lavorano ad una fabbrica di gomma
che si chiama la Buna, perciò il campo stesso si chiama Buna.
Riceveremo scarpe e vestiti, no,
non i nostri; altre scarpe, altri vestiti, come i suoi. Ora siamo nudi perché
aspettiamo la doccia e la disinfezione, le quali avranno luogo subito dopo la
sveglia, perché in campo non si entra se non si fa la disinfezione.
Certo, ci sarà da lavorare, tutti
qui devono lavorare. Ma c’è lavoro e lavoro: lui, per esempio, fa il medico, è
un medico ungherese che ha studiato in Italia; è il dentista del Lager. È in Lager da quattro
anni (non in questo: la Buna esiste da un anno e mezzo soltanto), eppure,
possiamo vederlo, sta bene, non è molto magro. Perché è in Lager? È ebreo come
noi? - No, - dice lui con semplicità, - io sono un criminale.
Noi gli facciamo molte domande,
lui qualche volta ride, risponde ad alcune e non ad altre, si vede bene che
evita certi argomenti. Delle donne non parla: dice che stanno bene, che presto
le rivedremo, ma non dice né come né dove. Invece ci racconta altro, cose
strane e folli, forse anche lui si fa gioco di noi. Forse è matto: in Lager si
diventa matti. Dice che tutte le domeniche ci sono concerti e partite di
calcio. Dice che chi tira bene di boxe può diventare cuoco. Dice che chi lavora
bene riceve buoni-premio con cui ci si può comprare tabacco e sapone. Dice che
veramente l’acqua non è potabile, e che invece ogni giorno si distribuisce un
surrogato di caffè, ma generalmente nessuno lo beve, perché la zuppa stessa è
acquosa quanto basta per soddisfare la sete. Noi lo preghiamo di procurarci
qualcosa da bere, ma lui dice che non può, che è venuto a vederci di nascosto,
contro il divieto delle SS, perché noi siamo ancora da disinfettare, e deve
andarsene subito; è venuto perché gli sono simpatici gli italiani, e perché,
dice, «ha un po’ di cuore». Noi gli chiediamo ancora se ci sono altri italiani
in campo, e lui dice che ce n’è qualcuno, pochi, non sa quanti, e subito cambia
discorso. In quel mentre ha suonato una campana, e lui è subito fuggito, e ci
ha lasciati attoniti e sconcertati. Qualcuno si sente rinfrancato, io no, io
continuo a pensare che anche questo dentista, questo individuo incomprensibile,
ha voluto divertirsi a nostre spese, e non voglio credere una parola di quanto
ha detto.
Alla campana, si è sentito il
campo buio ridestarsi. Improvvisamente l’acqua è scaturita bollente dalle
docce, cinque minuti di beatitudine; ma subito dopo irrompono quattro (forse
sono i barbieri) che, bagnati e fumanti, ci cacciano con urla e spintoni nella
camera attigua, che è gelida; qui altra gente urlante ci butta addosso non so
che stracci, e ci schiaccia in mano un paio di scarpacce a suola di legno, non
abbiamo tempo di comprendere e già ci troviamo all’aperto, sulla neve azzurra e
gelida dell’alba, e, scalzi e nudi, con tutto il corredo in mano, dobbiamo
correre fino ad un’altra baracca, a un centinaio di metri. Qui ci è concesso di
vestirci.
Quando abbiamo finito, ciascuno è
rimasto nel suo angolo, e non abbiamo osato levare gli occhi l’uno sull’altro.
Non c’è ove specchiarsi, ma il nostro aspetto ci sta dinanzi, riflesso in cento
visi lividi, in cento pupazzi miserabili e sordidi. Eccoci trasformati nei
fantasmi intravisti ieri sera.
Allora per la prima volta ci siamo
accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la
demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà
ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Più giù di così non si può andare:
condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile. Nulla più è nostro: ci
hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci
ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il
nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di
fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo,
rimanga.
Noi sappiamo che in questo difficilmente
saremo compresi, ed è bene che così sia. Ma consideri ognuno, quanto valore,
quanto significato è racchiuso anche nelle più piccole nostre abitudini
quotidiane, nei cento oggetti nostri che il più umile mendicante possiede: un
fazzoletto, una vecchia lettera, la fotografia di una persona cara. Queste cose
sono parte di noi, quasi come membra del nostro corpo; né è pensabile di
venirne privati, nel nostro mondo, ché subito ne ritroveremmo altri a
sostituire i vecchi, altri oggetti che sono nostri in quanto custodi e
suscitatori di memorie nostre.
Si immagini ora un uomo a cui,
insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i
suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo
vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento,
poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale
quindi, che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori
di ogni senso di affinità umana; nel caso più fortunato, in base ad un puro
giudizio di utilità. Si comprenderà allora il duplice significato del termine «Campo
di annientamento», e sarà chiaro che cosa intendiamo esprimere con questa
frase: giacere sul fondo.
Häftling (3): ho imparato che io
sono uno Häftling. Il mio nome è 174 517; siamo stati battezzati, porteremo
finché vivremo il marchio tatuato sul braccio sinistro.
L’operazione è stata lievemente
dolorosa, e straordinariamente rapida: ci hanno messi tutti in fila, e ad uno
ad uno, secondo l’ordine alfabetico dei nostri nomi, siamo passati davanti a un
abile funzionario munito di una specie di punteruolo dall’ago cortissimo. Pare
che questa sia l’iniziazione vera e propria: solo «mostrando il numero» si
riceve il pane e la zuppa. Sono occorsi vari giorni, e non pochi schiaffi e
pugni, perché ci abituassimo a mostrare il numero prontamente, in modo da non
intralciare le quotidiane operazioni annonarie di distribuzione; ci son voluti
settimane e mesi perché ne apprendessimo il suono in lingua tedesca. E per
molti giorni, quando l’abitudine dei giorni liberi mi spinge a cercare l’ora
sull’orologio a polso, mi appare invece ironicamente il mio nuovo nome, il
numero trapunto in segni azzurrognoli sotto l’epidermide.
Solo molto più tardi, e a poco a
poco, alcuni di noi hanno poi imparato qualcosa della funerea scienza dei
numeri di Auschwitz, in cui si compendiano le tappe della distruzione
dell’ebraismo d’Europa. Ai vecchi del campo, il numero dice tutto: l’epoca di
ingresso al campo, il convoglio di cui si faceva parte, e di conseguenza la
nazionalità. Ognuno tratterà con rispetto i numeri dal 30.000 all’80.000: non
sono più che qualche centinaio, e contrassegnano i pochi superstiti dei ghetti polacchi.
Conviene aprire bene gli occhi quando si entra in relazioni commerciali con un
116.000 o 117.000: sono ridotti ormai a una quarantina, ma si tratta dei greci di
Salonicco, non bisogna lasciarsi mettere nel sacco. Quanto ai numeri grossi,
essi comportano una nota di essenziale comicità, come avviene per i termini
«matricola» o «coscritto» nella vita normale: il grosso numero tipico è un
individuo panciuto, docile e scemo, a cui puoi far credere che all’infermeria
distribuiscono scarpe di cuoio per individui dai piedi delicati, e convincerlo
a corrervi e a lasciarti la sua gamella di zuppa «in custodia»; gli puoi
vendere un cucchiaio per tre razioni di pane; lo puoi mandare dal più feroce
dei Kapos (4), a chiedergli (è successo a me!) se è vero che il suo è il
Kartoffelschälkommando, il Kommando Pelatura Patate, e se è possibile esservi
arruolati.
D’altronde, l’intero processo di
inserimento in questo ordine per noi nuovo avviene in chiave grottesca e
sarcastica. Finita l’operazione di tatuaggio, ci hanno chiusi in una baracca
dove non c’è nessuno. Le cuccette sono rifatte, ma ci hanno severamente
proibito di toccarle e di sedervi sopra: così ci aggiriamo senza scopo per metà
della giornata nel breve spazio disponibile, ancora tormentati dalla sete
furiosa del viaggio. Poi la porta si è aperta, ed è entrato un ragazzo dal
vestito a righe, dall’aria abbastanza civile, piccolo, magro e biondo. Questo
parla francese, e gli siamo addosso in molti, tempestandolo di tutte le domande
che finora ci siamo rivolti l’un l’altro inutilmente.
Ma non parla volentieri: nessuno
qui parla volentieri. Siamo nuovi, non abbiamo niente e non sappiamo niente; a
che scopo perdere tempo con noi? Ci spiega di malavoglia che tutti gli altri
sono fuori a lavorare, e torneranno a sera. Lui è uscito stamane
dall’infermeria, per oggi è esente dal lavoro. Io gli ho chiesto (con
un’ingenuità che solo pochi giorni dopo già doveva parermi favolosa) se ci
avrebbero restituito almeno gli spazzolini da denti; lui non ha riso, ma col
viso atteggiato a intenso disprezzo mi ha gettato: - Vous n’êtes pas à la
maison – (5). Ed è questo il ritornello che da tutti ci sentiamo ripetere: non
siete più a casa, questo non è un sanatorio, di qui non si esce che per il
Camino (cosa vorrà dire? Lo impareremo bene più tardi).
E infatti: spinto dalla sete, ho
adocchiato, fuori di una finestra, un bel ghiacciolo a portata di mano. Ho
aperto la finestra, ho staccato il ghiacciolo, ma subito si è fatto avanti uno
grande e grosso che si aggirava là fuori, e me lo ha strappato brutalmente. -
Warum? (6) - gli ho chiesto nel mio povero tedesco. - Hier ist kein warum, -
(qui non c’è perché), mi ha risposto, ricacciandomi dentro con uno spintone.
La spiegazione è ripugnante ma
semplice: in questo luogo è proibito tutto, non già per riposte ragioni, ma perché
a tale scopo il campo è stato creato. Se vorremo viverci, bisognerà capirlo
presto e bene:
... Qui non ha luogo
il Santo Volto,
qui si nuota altrimenti
che nel Serchio! (7)
Ora dopo ora, questa prima
lunghissima giornata di antinferno volge al termine. Mentre il sole tramonta in
un vortice di truci nubi sanguigne, ci fanno finalmente uscire dalla baracca.
Ci daranno da bere? No, ci mettono ancora una volta in fila, ci conducono in un
vasto piazzale che occupa il centro del campo, e ci dispongono meticolosamente
inquadrati. Poi non accade più nulla per un’altra ora: sembra che si aspetti
qualcuno.
Una fanfara incomincia a suonare,
accanto alla porta del campo: suona Rosamunda,
la ben nota canzonetta sentimentale, e questo ci appare talmente strano che ci
guardiamo l’un l’altro sogghignando; nasce in noi un’ombra di sollievo, forse
tutte queste cerimonie non costituiscono che una colossale buffonata di gusto
teutonico. Ma la fanfara, finita Rosamunda,
continua a suonare altre marce, una dopo l’altra, ed ecco apparire i drappelli
dei nostri compagni, che ritornano dal lavoro. Camminano in colonna per cinque:
camminano con un’andatura strana, innaturale, dura, come fantocci rigidi fatti
solo di ossa: ma camminano seguendo scrupolosamente il tempo della fanfara.
Anche loro si dispongono come
noi, secondo un ordine minuzioso, nella vasta piazza; quando l’ultimo drappello
è rientrato, ci contano e ci ricontano per più di un’ora, avvengono lunghi
controlli che sembrano tutti fare capo a un tale vestito a righe, il quale ne
rende conto a un gruppetto di SS in pieno assetto di guerra.
Finalmente (è ormai buio, ma il
campo è fortemente illuminato da fanali e riflettori) si sente gridare
«Absperre!» (8), al che tutte le squadre si disfano in un viavai confuso e
turbolento. Adesso non camminano più rigidi e impettiti come prima: ciascuno si
trascina con sforzo evidente. Noto che tutti portano in mano o appesa alla
cintura una scodella di lamiera grande quasi come un catino. Anche noi nuovi
arrivati ci aggiriamo tra la folla, alla ricerca di una voce, di un viso amico,
di una guida. Contro la parete di legno di una baracca stanno seduti a terra
due ragazzi: sembrano giovanissimi, sui sedici anni al massimo, tutti e due
hanno il viso e le mani sporche di fuliggine. Uno dei due, mentre passiamo, mi
chiama, e mi pone in tedesco alcune domande che non capisco; poi mi chiede da
dove veniamo. - Italien, - rispondo; vorrei domandargli molte cose, ma il mio
frasario tedesco è limitatissimo.
- Sei ebreo? - gli chiedo.
- Sì, ebreo polacco.
- Da quanto sei in Lager?
- Tre anni, - e leva tre dita.
Deve essere entrato bambino, penso con orrore; d’altronde, questo significa che
almeno qualcuno qui può vivere.
- Qual è il tuo lavoro?
- Schlosser, - risponde. Non
capisco: - Eisen; Feuer, - (ferro, fuoco) insiste lui, e fa cenno colle mani
come di chi batta col martello su di un’incudine. È un fabbro, dunque.
- Ich Chemiker, - dichiaro io; e
lui accenna gravemente col capo, - Chemiker gut -. Ma tutto questo riguarda il
futuro lontano: ciò che mi tormenta, in questo momento, è la sete.
- Bere, acqua. Noi niente acqua,
- gli dico. Lui mi guarda con un viso serio, quasi severo, e scandisce: Non
bere acqua, compagno, - e poi altre parole che non capisco.
- Warum?
- Geschwollen, - risponde lui
telegraficamente: io crollo il capo, non ho capito. - Gonfio, - mi fa capire,
enfiando le gote e abbozzando colle mani una mostruosa tumescenza del viso e
del ventre. - Warten bis beute abend -. «Aspettare fino oggi sera», traduco io
parola per parola.
Poi mi dice: - Ich Schlome. Du? (9)
- Gli dico il mio nome, e lui mi chiede: - Dove tua madre? - In Italia -.
Schlome si stupisce : - Ebrea in Italia? - Sì, - spiego io del mio meglio, -
nascosta, nessuno conosce, scappare, non parlare, nessuno vedere -. Ha capito;
ora si alza, mi si avvicina e mi abbraccia timidamente. L’avventura è finita, e
mi sento pieno di una tristezza serena che è quasi gioia. Non ho più rivisto
Schlome, ma non ho dimenticato il suo volto grave e mite di fanciullo, che mi
ha accolto sulla soglia della casa dei morti.
Moltissime cose ci restano da
imparare, ma molte le abbiamo già imparate. Già abbiamo una certa idea della
topografia del Lager; questo nostro Lager è un quadrato di circa seicento metri
di lato, circondato da due reticolati di filo spinato, il più interno dei quali
è percorso da corrente ad alta tensione. È costituito da sessanta baracche in
legno, che qui si chiamano Blocks, di cui una decina in costruzione; a queste
vanno aggiunti il corpo delle cucine, che è in muratura; una fattoria
sperimentale, gestita da un distaccamento di Häftlinge privilegiati; le
baracche delle docce e delle latrine, in numero di una per ogni gruppo di sei
od otto Blocks. Di più, alcuni Blocks sono adibiti a scopi particolari.
Innanzitutto, un gruppo di otto, all’estremità est del campo, costituisce
l’infermeria e l’ambulatorio; v’è poi il Block 24 che è il Krätzeblock,
riservato agli scabbiosi; il Block 7, in cui nessun comune Häftling è mai
entrato, riservato alla «Prominenz», cioè all’aristocrazia, agli internati che
ricoprono le cariche supreme; il Block 47, riservato ai Reichsdeutsche (gli
ariani tedeschi, politici o criminali); il Block 49, per soli Kapos; il Block
12, una metà del quale, ad uso dei Reichsdeutsche e Kapos, funge da Kantine,
cioè da distributorio di tabacco, polvere insetticida, e occasionalmente altri
articoli; il Block 37, che contiene la Fureria centrale e l’Ufficio del lavoro;
e infine il Block 29, che ha le finestre sempre chiuse perché è il Frauenblock,
il postribolo del campo, servito da ragazze Häftlinge polacche, e riservato ai
Reichsdeutsche.
I comuni Blocks di abitazione
sono divisi in due locali; in uno (Tagesraum) vive il capo-baracca con i suoi
amici: v’è un lungo tavolo, sedie, panche; ovunque una quantità di strani
oggetti dai colori vivaci, fotografie, ritagli di riviste, disegni, fiori
finti, soprammobili; sulle pareti, grandi scritte, proverbi e poesiole
inneggianti all’ordine, alla disciplina, all’igiene; in un angolo, una vetrina
con gli attrezzi del Blockfrisör (barbiere autorizzato), i mestoli per
distribuire la zuppa e due nerbi (10) di gomma, quello pieno e quello vuoto,
per mantenere la disciplina medesima. L’altro locale è il dormitorio; non vi
sono che centoquarantotto cuccette a tre piani, disposte fittamente, come celle
di alveare, in modo da utilizzare senza residui tutta la cubatura del vano,
fino al tetto, e divise da tre corridoi; qui vivono i comuni Häftlinge, in
numero di duecento-duecentocinquanta per baracca, due quindi in buona parte
delle cuccette, le quali sono di tavole di legno mobili, provviste di un
sottile sacco a paglia e di due coperte ciascuna. I corridoi di disimpegno sono
così stretti che a stento ci si passa in due; la superficie totale di pavimento
è così poca che gli abitanti di uno stesso Block non vi possono soggiornare
tutti contemporaneamente se almeno la metà non sono coricati nelle cuccette. Di
qui il divieto di entrare in un Block a cui non si appartiene.
In mezzo al Lager è la piazza dell’Appello,
vastissima, dove ci si raduna al mattino per costituire le squadre di lavoro, e
alla sera per venire contati. Di fronte alla piazza dell’Appello c’è una aiuola
dall’erba accuratamente rasa, dove si montano le forche quando occorre.
Abbiamo ben presto imparato che
gli ospiti del Lager sono distinti in tre categorie: i criminali, i politici e
gli ebrei. Tutti sono vestiti a righe, sono tutti Häftlinge, ma i criminali
portano accanto al numero, cucito sulla giacca, un triangolo verde; i politici
un triangolo rosso; gli ebrei, che costituiscono la grande maggioranza, portano
la stella ebraica, rossa e gialla. Le SS ci sono sì, ma poche, e fuori del
campo, e si vedono relativamente di rado: i nostri padroni effettivi sono i
triangoli verdi, i quali hanno mano libera su di noi, e inoltre quelli fra le
due altre categorie che si prestano ad assecondarli: i quali non sono pochi.
Ed altro ancora abbiamo imparato,
più o meno rapidamente, a seconda del carattere di ciascuno; a rispondere
«Jawohl», a non fare mai domande, a fingere sempre di avere capito. Abbiamo
appreso il valore degli alimenti; ora anche noi raschiamo diligentemente il
fondo della gamella dopo il rancio, e la teniamo sotto il mento quando mangiamo
il pane per non disperderne le briciole. Anche noi adesso sappiamo che non è la
stessa cosa ricevere il mestolo di zuppa prelevato dalla superficie o dal fondo
del mastello, e siamo già in grado di calcolare, in base alla capacità dei vari
mastelli, quale sia il posto più conveniente a cui aspirare quando ci si mette
in coda.
Abbiamo imparato che tutto serve;
il fil di ferro, per legarsi le scarpe; gli stracci, per ricavarne pezze da
piedi; la carta, per imbottirsi (abusivamente) la giacca contro il freddo.
Abbiamo imparato che d’altronde tutto può venire rubato, anzi, viene automaticamente
rubato non appena l’attenzione si rilassa; e per evitarlo abbiamo dovuto
apprendere l’arte di dormire col capo su un fagotto fatto con la giacca, e
contenente tutto il nostro avere, dalla gamella alle scarpe.
Conosciamo già in buona parte il
regolamento del campo, che è favolosamente complicato. Innumerevoli sono le
proibizioni: avvicinarsi a meno di due metri dal filo spinato; dormire con la
giacca, o senza mutande, o col cappello in testa; servirsi di particolari
lavatoi e latrine che sono «nur (11) für Kapos» o «nur für Reichsdeutsche»; non
andare alla doccia nei giorni prescritti, e andarvi nei giorni non prescritti;
uscire di baracca con la giacca sbottonata, o col bavero rialzato; portare
sotto gli abiti carta o paglia contro il freddo; lavarsi altrimenti che a torso
nudo.
Infiniti e insensati sono i riti
da compiersi: ogni giorno al mattino bisogna fare «il letto», perfettamente
piano e liscio; spalmarsi gli zoccoli fangosi e repellenti con l’apposito grasso
da macchina, raschiare via dagli abiti le macchie di fango (le macchie di
vernice, di grasso e di ruggine sono invece ammesse); alla sera, bisogna
sottoporsi al controllo dei pidocchi e al controllo della lavatura dei piedi;
al sabato farsi radere la barba e i capelli, rammendarsi o farsi rammendare gli
stracci; alla domenica, sottoporsi al controllo generale della scabbia, e al
controllo dei bottoni della giacca, che devono essere cinque.
Di più, ci sono innumerevoli
circostanze, normalmente irrilevanti, che qui diventano problemi. Quando le
unghie si allungano, bisogna accorciarle, il che non si può fare altrimenti che
coi denti (per le unghie dei piedi basta l’attrito delle scarpe); se si perde
un bottone bisogna saperselo riattaccare con un filo di ferro; se si va alla
latrina o al lavatoio, bisogna portarsi dietro tutto, sempre e dovunque, e
mentre ci si lavano gli occhi, tenere il fagotto degli abiti stretto fra le
ginocchia: in qualunque altro modo, esso in quell’attimo verrebbe rubato. Se
una scarpa fa male bisogna presentarsi alla sera alla cerimonia del cambio
delle scarpe; qui si mette alla prova la perizia dell’individuo, in mezzo alla
calca incredibile bisogna saper scegliere con un colpo d’occhio una (non un
paio: una) scarpa che si adatti, perché, fatta la scelta, un secondo cambio non
è concesso.
Né si creda che le scarpe, nella
vita del Lager, costituiscano un fattore d’importanza secondaria. La morte
incomincia dalle scarpe: esse si sono rivelate, per la maggior parte di noi,
veri arnesi di tortura, che dopo poche ore di marcia davano luogo a piaghe
dolorose che fatalmente si infettavano. Chi ne è colpito, è costretto a
camminare come se avesse una palla al piede (ecco il perché della strana
andatura dell’esercito di larve che ogni sera rientra in parata); arriva ultimo
dappertutto, e dappertutto riceve botte; non può scappare se lo inseguono; i
suoi piedi si gonfiano, e più si gonfiano, più l’attrito con il legno e la tela
delle scarpe diventa insopportabile. Allora non resta che l’ospedale: ma
entrare in ospedale con la diagnosi di «dicke Risse» (piedi gonfi) è
estremamente pericoloso, perché è ben noto a tutti, ed alle SS in ispecie, che
di questo male, qui, non si può guarire.
E in tutto questo, non abbiamo
ancora accennato al lavoro, il quale è a sua volta un groviglio di leggi, di
tabù e di problemi.
Tutti lavoriamo, tranne i malati
(farsi riconoscere come malato comporta di per sé un imponente bagaglio di
cognizioni e di esperienze). Tutte le mattine usciamo inquadrati dal campo alla
Buna; tutte le sere, inquadrati, rientriamo. Per quanto concerne il lavoro,
siamo suddivisi in circa duecento Kommandos, ognuno dei quali conta da quindici
a centocinquanta uomini ed è comandato da un Kapo. Vi sono Kommandos buoni e
cattivi: per la maggior parte sono adibiti a trasporti, e il lavoro vi è assai
duro, specialmente d’inverno, se non altro perché si svolge sempre all’aperto.
Vi sono anche Kommandos di specialisti (elettricisti, fabbri, muratori,
saldatori, meccanici, cementisti, ecc.), ciascuno addetto a una certa officina
o reparto della Buna, e dipendenti in modo più diretto da Meister civili, per
lo più tedeschi e polacchi; questo avviene naturalmente solo nelle ore di
lavoro: nel resto della giornata, gli specialisti (non sono più di tre o
quattrocento in tutto) non hanno trattamento diverso dai lavoratori comuni.
All’assegnazione dei singoli ai vari Kommandos sovrintende uno speciale ufficio
del Lager, 1’Arbeitsdienst, che è in continuo contatto con la direzione civile
della Buna. L’Arbeitsdienst decide in base a criteri sconosciuti, spesso
palesemente in base a protezioni e corruzioni, in modo che, se qualcuno riesce
a procurarsi da mangiare, è anche praticamente sicuro di ottenere un buon posto
in Buna.
L’orario di lavoro è variabile
con la stagione. Tutte le ore di luce sono ore lavorative: perciò si va da un
orario minimo invernale (ore 8-12 e 12,30-16) a uno massimo estivo (ore 6,30-12
e 13-18). Per nessuna ragione gli Häftlinge possono trovarsi al lavoro nelle
ore di oscurità o quando c’è nebbia fitta, mentre si lavora regolarmente anche
se piove o nevica o (caso assai frequente) soffia il vento feroce dei Carpazi;
questo in relazione al fatto che il buio o la nebbia potrebbero dare occasione
a tentativi di fuga.
Una domenica ogni due è regolare
giorno lavorativo; nelle domeniche cosiddette festive, invece di lavorare in
Buna si lavora di solito alla manutenzione del Lager, in modo che i giorni di
effettivo riposo sono estremamente rari.
Tale sarà la nostra vita. Ogni
giorno, secondo il ritmo prestabilito, Ausrücken ed Einrücken, uscire e
rientrare; lavorare, dormire e mangiare; ammalarsi, guarire o morire.
... E fino a quando? Ma gli
anziani ridono a questa domanda: a questa domanda si riconoscono i nuovi
arrivati. Ridono e non rispondono: per loro, da mesi, da anni, il problema del
futuro remoto è impallidito, ha perso ogni acutezza, di fronte ai ben più
urgenti e concreti problemi del futuro prossimo: quanto si mangerà oggi, se
nevicherà, se ci sarà da scaricare carbone.
Se fossimo ragionevoli, dovremmo
rassegnarci a questa evidenza, che il nostro destino è perfettamente
inconoscibile, che ogni congettura è arbitraria ed esattamente priva di fondamento
reale. Ma ragionevoli gli uomini sono assai raramente, quando è in gioco il
loro proprio destino: essi preferiscono in ogni caso le posizioni estreme;
perciò, a seconda del loro carattere, fra di noi gli uni si sono convinti
immediatamente che tutto è perduto, che qui non si può vivere e che la fine è
certa e prossima; gli altri, che, per quanto dura sia la vita che ci attende,
la salvezza è probabile e non lontana, e, se avremo fede e forza, rivedremo le
nostre case e i nostri cari. Le due classi, dei pessimisti e degli ottimisti,
non sono peraltro così ben distinte: non già perché gli agnostici siano molti,
ma perché i più, senza memoria né coerenza, oscillano fra le due
posizioni-limite, a seconda dell’interlocutore e del momento.
Eccomi dunque sul fondo. A dare
un colpo di spugna al passato e al futuro si impara assai presto, se il bisogno
preme. Dopo quindici giorni dall’ingresso, già ho la fame regolamentare, la
fame cronica sconosciuta agli uomini liberi, che fa sognare di notte e siede in
tutte le membra dei nostri corpi; già ho imparato a non lasciarmi derubare, e
se anzi trovo in giro un cucchiaio, uno spago, un bottone di cui mi possa
appropriare senza pericolo di punizione, li intasco e li considero miei di
pieno diritto. Già mi sono apparse, sul dorso dei piedi, le piaghe torpide che
non guariranno. Spingo vagoni, lavoro di pala, mi fiacco alla pioggia, tremo al
vento; già il mio stesso corpo non è più mio: ho il ventre gonfio e le membra
stecchite, il viso tumido al mattino e incavato a sera; qualcuno fra noi ha la
pelle gialla, qualche altro grigia: quando non ci vediamo per tre o quattro
giorni, stentiamo a riconoscerci l’un l’altro.
Avevamo deciso di trovarci, noi
italiani, ogni domenica sera in un angolo del Lager; ma abbiamo subito smesso,
perché era troppo triste contarci, e trovarci ogni volta più pochi, e più
deformi, e più squallidi. Ed era così faticoso fare quei pochi passi: e poi, a
ritrovarsi, accadeva di ricordare e di pensare, ed era meglio non farlo.
(1) “Wer kann Deutsch?” = Chi sa
il tedesco?
(2) Cinto erniario = apparecchio
ortopedico per chi soffre di ernia addominale
(3) Häftling = detenuto
(4) Il kapo era un prigioniero
che in un lager aveva il compito di comandare sugli altri detenuti
(5) “Vous n’êtes pas à la maison”
= voi non siete a casa
(6) Warum? = Perché?
(7) Si tratta di una frase
contenuta nell’Inferno dantesco (canto ventunesimo – versi 48-49), la quale
viene detta con intento ironico da alcuni diavoli contro i cittadini di Lucca
(8) Absperre = Rompete
le righe
(9) “Ich Schlome. Du?” = Io mi
chiamo Schlome. Tu?
(10) Nerbo = scudiscio usato per
frustare i prigionieri
(11) Nur = soltanto
Alcuni Blocks di Auschwitz, oggi
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