Nel primo capitolo di “Se questo è un uomo” Primo Levi
racconta la sua cattura mentre si trova in montagna con un gruppo di
partigiani, il trasferimento al campo di Fossoli e quindi il viaggio in un
treno merci fino ad Auschwitz. Qui una sommaria osservazione delle condizioni
di salute deciderà quali prigionieri verranno trattenuti a lavorare nel campo e
quali mandati direttamente a morire nelle camere a gas: dei 650 ebrei che
viaggiarono verso il lager con Primo Levi, 96 uomini e 29 donne vennero mandati
a lavorare, gli altri vennero uccisi nei due giorni successivi all’arrivo.
IL VIAGGIO
Ero stato catturato dalla Milizia
fascista il 13 dicembre 1943. Avevo ventiquattro anni, poco senno, nessuna
esperienza, e una decisa propensione, favorita dal regime di segregazione a cui
da quattro anni le leggi razziali mi avevano ridotto, a vivere in un mio mondo
scarsamente reale, popolato da civili fantasmi cartesiani, da sincere amicizie
maschili e da amicizie femminili esangui. Coltivavo un moderato e astratto
senso di ribellione.
Non mi era stato facile scegliere
la via della montagna, e contribuire a mettere in piedi quanto, nella opinione mia
e di altri amici di me poco più esperti, avrebbe dovuto diventare una banda
partigiana affiliata a «Giustizia e Libertà» (1). Mancavano i contatti, le armi,
i quattrini e l’esperienza per procurarseli; mancavano gli uomini capaci, ed
eravamo invece sommersi da un diluvio di gente squalificata, in buona e in mala
fede, che arrivava lassù dalla pianura in cerca di una organizzazione inesistente,
di quadri, di armi, o anche solo di protezione, di un nascondiglio, di un fuoco,
di un paio di scarpe.
A quel tempo, non mi era stata
ancora insegnata la dottrina che dovevo più tardi rapidamente imparare in Lager,
e secondo la quale primo ufficio dell’uomo è perseguire i propri scopi con
mezzi idonei, e chi sbaglia paga; per cui non posso che considerare conforme a
giustizia il successivo svolgersi dei fatti. Tre centurie della Milizia,
partite in piena notte per sorprendere un’altra banda, di noi ben più potente e
pericolosa, annidata nella valle contigua, irruppero in una spettrale alba di
neve nel nostro rifugio, e mi condussero a valle come persona sospetta.
Negli interrogatori che
seguirono, preferii dichiarare la mia condizione di «cittadino italiano di
razza ebraica», poiché ritenevo che non sarei riuscito a giustificare
altrimenti la mia presenza in quei luoghi troppo appartati anche per uno
«sfollato», e stimavo (a torto, come si vide poi) che l’ammettere la mia
attività politica avrebbe comportato torture e morte certa. Come ebreo, venni
inviato a Fossoli, presso Modena, dove un vasto campo di internamento, già
destinato ai prigionieri di guerra inglesi e americani, andava raccogliendo gli
appartenenti alle numerose categorie di persone non gradite al neonato governo fascista
repubblicano (2).
Al momento del mio arrivo, e cioè
alla fine del gennaio 1944, gli ebrei italiani nel campo erano centocinquanta
circa, ma entro poche settimane il loro numero giunse a oltre seicento. Si
trattava per lo più di intere famiglie, catturate dai fascisti o dai nazisti
per loro imprudenza, o in seguito a delazione. Alcuni pochi si erano consegnati
spontaneamente, o perché ridotti alla disperazione dalla vita randagia, o
perché privi di mezzi, o per non separarsi da un congiunto catturato, o anche, assurdamente,
per «mettersi in ordine con la legge». V’erano inoltre un centinaio di militari
jugoslavi internati, e alcuni altri stranieri considerati politicamente
sospetti.
L’arrivo di un piccolo reparto di
SS tedesche avrebbe dovuto far dubitare anche gli ottimisti; si riuscì tuttavia
a interpretare variamente questa novità, senza trarne la più ovvia delle
conseguenze, in modo che, nonostante tutto, l’annuncio della deportazione trovò
gli animi impreparati.
Il giorno 20 febbraio i tedeschi avevano
ispezionato il campo con cura, avevano fatte pubbliche e vivaci rimostranze al
commissario italiano per la difettosa organizzazione del servizio di cucina e
per lo scarso quantitativo della legna distribuita per il riscaldamento;
avevano perfino detto che presto un’infermeria avrebbe dovuto entrare in
efficienza. Ma il mattino del 21 si seppe che l’indomani gli ebrei sarebbero
partiti. Tutti: nessuna eccezione. Anche i bambini, anche i vecchi, anche i
malati. Per dove, non si sapeva. Prepararsi per quindici giorni di viaggio. Per
ognuno che fosse mancato all’appello, dieci sarebbero stati fucilati.
Soltanto una minoranza di ingenui
e di illusi si ostinò nella speranza: noi avevamo parlato a lungo coi profughi polacchi
e croati, e sapevamo che cosa voleva dire partire. Nei riguardi dei condannati
a morte, la tradizione prescrive un austero cerimoniale, atto a mettere in evidenza
come ogni passione e ogni collera siano ormai spente, e come l’atto di
giustizia non rappresenti che un triste dovere verso la società, tale da potere
accompagnarsi a pietà verso la vittima da parte dello stesso giustiziere. Si
evita perciò al condannato ogni cura estranea, gli si concede la solitudine, e,
ove lo desideri, ogni conforto spirituale, si procura insomma che egli non
senta intorno a sé l’odio o l’arbitrio, ma la necessità e la giustizia, e,
insieme con la punizione, il perdono.
Ma a noi questo non fu concesso,
perché eravamo troppi, e il tempo era poco, e poi, finalmente, di che cosa
avremmo dovuto pentirci, e di che cosa venir perdonati? Il commissario italiano
dispose dunque che tutti i servizi continuassero a funzionare fino all’annunzio
definitivo; la cucina rimase perciò in efficienza, le corvées di pulizia
lavorarono come di consueto, e perfino i maestri e i professori della piccola
scuola tennero lezione a sera, come ogni giorno. Ma ai bambini quella sera non fu
assegnato compito.
E venne la notte, e fu una notte tale,
che si conobbe che occhi umani non avrebbero dovuto assistervi e sopravvivere.
Tutti sentirono questo: nessuno dei guardiani, né italiani né tedeschi, ebbe
animo di venire a vedere che cosa fanno gli uomini quando sanno di dover morire.
Ognuno si congedò dalla vita nel modo
che più gli si addiceva. Alcuni pregarono, altri bevvero oltre misura, altri si
inebriarono di nefanda ultima passione. Ma le madri vegliarono a preparare con
dolce cura il cibo per il viaggio, e lavarono i bambini, e fecero i bagagli, e
all’alba i fili spinati erano pieni di biancheria infantile stesa al vento ad
asciugare; e non dimenticarono le fasce, e i giocattoli, e i cuscini, e le
cento piccole cose che esse ben sanno, e di cui i bambini hanno in ogni caso bisogno.
Non fareste anche voi altrettanto? Se dovessero uccidervi domani col vostro
bambino voi non gli dareste oggi da mangiare?
Nella baracca 6 A abitava il vecchio
Gattegno, con la moglie e i molti figli e i nipoti e i generi e le nuore
operose. Tutti gli uomini erano falegnami; venivano da Tripoli, attraverso
molti e lunghi viaggi, e sempre avevano portati con sé gli strumenti del
mestiere, e la batteria di cucina, e le fisarmoniche e il violino per suonare e
ballare dopo la giornata di lavoro, perché erano gente lieta e pia. Le loro
donne furono le prime fra tutte a sbrigare i preparativi per il viaggio,
silenziose e rapide, affinché avanzasse tempo per il lutto; e quando tutto fu
pronto, le focacce cotte, i fagotti legati, allora si scalzarono, si sciolsero
i capelli, e disposero al suolo le candele funebri, e le accesero secondo il
costume dei padri, e sedettero a terra a cerchio per la lamentazione, e tutta notte
pregarono e piansero (3). Noi sostammo numerosi davanti alla loro porta, e ci
discese nell’anima, nuovo per noi, il dolore antico del popolo che non ha
terra, il dolore senza speranza dell’esodo ogni secolo rinnovatolo.
L’alba ci colse come un
tradimento; come se il nuovo sole si associasse agli uomini nella deliberazione
di distruggerci. I diversi sentimenti che si agitavano in noi, di consapevole
accettazione, di ribellione senza sbocchi, di religioso abbandono, di paura, di
disperazione, confluivano ormai, dopo la notte insonne, in una collettiva incontrollata
follia. Il tempo di meditare, il tempo di stabilire erano conchiusi, e ogni
moto di ragione si sciolse nel tumulto senza vincoli, su cui, dolorosi come
colpi di spada, emergevano in un lampo, così vicini ancora nel tempo e nello
spazio, i ricordi buoni delle nostre case.
Molte cose furono allora fra noi dette
e fatte; ma di queste è bene che non resti memoria.
Con la assurda precisione a cui avremmo
più tardi dovuto abituarci, i tedeschi fecero l’appello. Alla fine, - Wieviel
Stück? (4) - domandò il maresciallo; e il caporale salutò di scatto, e rispose
che i «pezzi» erano seicentocinquanta, e che tutto era in ordine; allora ci
caricarono sui torpedoni e ci portarono alla stazione di Carpi. Qui ci
attendeva il treno e la scorta per il viaggio. Qui ricevemmo i primi colpi: e
la cosa fu così nuova e insensata che non provammo dolore, nel corpo né nell’anima.
Soltanto uno stupore profondo: come si può percuotere un uomo senza collera?
I vagoni erano dodici, e noi seicentocinquanta;
nel mio vagone eravamo quarantacinque soltanto, ma era un vagone piccolo. Ecco dunque,
sotto i nostri occhi, sotto i nostri piedi, una delle famose tradotte tedesche,
quelle che non ritornano, quelle di cui, fremendo e sempre un poco increduli,
avevamo così spesso sentito narrare. Proprio così, punto per punto: vagoni
merci, chiusi dall’esterno, e dentro uomini donne bambini, compressi senza pietà,
come merce di dozzina, in viaggio verso il nulla, in viaggio all’ingiù, verso
il fondo. Questa volta dentro siamo noi.
Tutti scoprono, più o meno presto
nella loro vita, che la felicità perfetta non è realizzabile, ma pochi si
soffermano invece sulla considerazione opposta: che tale è anche una infelicità
perfetta. I momenti che si oppongono alla realizzazione di entrambi i due stati-limite
sono della stessa natura: conseguono dalla nostra condizione umana, che è
nemica di ogni infinito. Vi si oppone la nostra sempre insufficiente conoscenza
del futuro; e questo si chiama, in un caso, speranza, e nell’altro, incertezza
del domani. Vi si oppone la sicurezza della morte, che impone un limite a ogni
gioia, ma anche a ogni dolore. Vi si oppongono le inevitabili cure materiali,
che, come inquinano ogni felicità duratura, così distolgono assiduamente la nostra
attenzione dalla sventura che ci sovrasta, e ne rendono frammentaria, e perciò sostenibile,
la consapevolezza.
Sono stati proprio i disagi, le percosse,
il freddo, la sete, che ci hanno tenuti a galla sul vuoto di una disperazione
senza fondo, durante il viaggio e dopo. Non già la volontà di vivere, né una
cosciente rassegnazione: ché pochi sono gli uomini capaci di questo, e noi non eravamo
che un comune campione di umanità.
Gli sportelli erano stati chiusi subito,
ma il treno non si mosse che a sera. Avevamo appreso con sollievo la nostra
destinazione. Auschwitz: un nome privo di significato, allora e per noi; ma doveva
pur corrispondere a un luogo di questa terra (5).
Il treno viaggiava lentamente,
con lunghe soste snervanti. Dalla feritoia, vedemmo sfilare le alte rupi
pallide della val d’Adige, gli ultimi nomi di città italiane. Passammo il
Brennero alle dodici del secondo giorno, e tutti si alzarono in piedi, ma
nessuno disse parola. Mi stava nel cuore il pensiero del ritorno, e crudelmente
mi rappresentavo quale avrebbe potuto essere la inumana gioia di quell’altro
passaggio, a portiere aperte, ché nessuno avrebbe desiderato fuggire, e i primi
nomi italiani... e mi guardai intorno, e pensai quanti, fra quella povera
polvere umana, sarebbero stati toccati dal destino.
Fra le quarantacinque persone del
mio vagone, quattro soltanto hanno rivisto le loro case; e fu di gran lunga il
vagone più fortunato.
Soffrivamo per la sete e il
freddo: a tutte le fermate chiedevamo acqua a gran voce, o almeno un pugno di
neve, ma raramente fummo uditi; i soldati della scorta allontanavano chi
tentava di avvicinarsi al convoglio. Due giovani madri, coi figli ancora al
seno, gemevano notte e giorno implorando acqua. Meno tormentose erano per tutti
la fame, la fatica e l’insonnia, rese meno penose dalla tensione dei nervi: ma
le notti erano incubi senza fine.
Pochi sono gli uomini che sanno andare
a morte con dignità, e spesso non quelli che ti aspetteresti. Pochi sanno
tacere, e rispettare il silenzio altrui. Il nostro sonno inquieto era interrotto
sovente da liti rumorose e futili, da imprecazioni, da calci e pugni vibrati
alla cieca come difesa contro qualche contatto molesto e inevitabile. Allora
qualcuno accendeva la lugubre fiammella di una candela, e rivelava, prono sul
pavimento, un brulichio fosco, una materia umana confusa e continua, torpida e
dolorosa sollevata qua e là da convulsioni improvvise subito spente dalla
stanchezza.
Dalla feritoia, nomi noti e ignoti
di città austriache, Salisburgo, Vienna; poi cèche, infine polacche. Alla sera
del quarto giorno, il freddo si fece intenso: il treno percorreva interminabili
pinete nere, salendo in modo percettibile. La neve era alta. Doveva essere una
linea secondaria, le stazioni erano piccole e quasi deserte. Nessuno tentava
più, durante le soste, di comunicare col mondo esterno: ci sentivamo ormai
«dall’altra parte». Vi fu una lunga sosta in aperta campagna, poi la marcia
riprese con estrema lentezza, e il convoglio si arrestò definitivamente, a
notte alta, in mezzo a una pianura buia e silenziosa.
Si vedevano, da entrambi i lati
del binario, file di lumi bianchi e rossi, a perdita d’occhio; ma nulla di quel
rumorio confuso che denunzia di lontano i luoghi abitati. Alla luce misera
dell’ultima candela, spento il ritmo delle rotaie, spento ogni suono umano,
attendemmo che qualcosa avvenisse.
Accanto a me, serrata come me fra
corpo e corpo, era stata per tutto il viaggio una donna. Ci conoscevamo da
molti anni, e la sventura ci aveva colti insieme, ma poco sapevamo l’uno dell’altra.
Ci dicemmo allora, nell’ora della decisione, cose che non si dicono fra i vivi.
Ci salutammo, e fu breve; ciascuno salutò nell’altro la vita. Non avevamo più
paura.
Venne a un tratto lo
scioglimento. La portiera
fu aperta con fragore, il buio echeggiò di ordini stranieri, e di quei
barbarici latrati dei Tedeschi quando comandano, che sembrano dar vento a una rabbia
vecchia di secoli. Ci apparve una vasta banchina illuminata da
riflettori. Poco oltre, una fila di autocarri. Poi tutto tacque di nuovo.
Qualcuno tradusse: bisognava scendere coi bagagli, e depositare questi lungo il
treno. In un momento la banchina fu brulicante di ombre: ma avevamo paura di
rompere quel silenzio, tutti si affaccendavano intorno ai bagagli, si
cercavano, si chiamavano l’un l’altro, ma timidamente, a mezza voce.
Una decina di SS stavano in disparte, l’aria indifferente,
piantati a gambe larghe. A un certo momento, penetrarono fra di noi, e, con
voce sommessa, con visi di pietra, presero a interrogarci rapidamente, uno per
uno, in cattivo italiano. Non interrogavano tutti, solo qualcuno. «Quanti anni?
Sano o malato?» e in base alla risposta ci indicavano due diverse direzioni.
Tutto era silenzioso come in un
acquario, e come in certe scene di sogni. Ci saremmo attesi qualcosa di più
apocalittico: sembravano semplici agenti d’ordine. Era sconcertante e
disarmante. Qualcuno osò chiedere dei bagagli: risposero «bagagli dopo»;
qualche altro non voleva lasciare la moglie: dissero «dopo di nuovo insieme»;
molte madri non volevano separarsi dai figli: dissero «bene bene, stare con
figlio». Sempre con la pacata sicurezza di chi non fa che il suo ufficio di
ogni giorno; ma Renzo indugiò un istante di troppo a salutare Francesca, che
era la sua fidanzata, e allora con un solo colpo in pieno viso lo stesero a
terra: era il loro ufficio di ogni giorno.
In meno di dieci minuti tutti noi
uomini validi fummo radunati in un gruppo. Quello che accadde degli altri, delle
donne, dei bambini, dei vecchi, noi non potemmo stabilire allora né dopo: la
notte li inghiottì, puramente e semplicemente. Oggi però sappiamo che in quella
scelta rapida e sommaria, di ognuno di noi era stato giudicato se potesse o no
lavorare utilmente per il Reich; sappiamo che nei campi rispettivamente di
Buna-Monowitz e Birkenau, non entrarono, del nostro convoglio, che novantasei
uomini e ventinove donne, e che di tutti gli altri, in numero di più di
cinquecento, non uno era vivo due giorni più tardi. Sappiamo anche, che non
sempre questo pur tenue principio di discriminazione in abili e inabili fu seguito,
e che successivamente fu adottato spesso il sistema più semplice di aprire entrambe
le portiere dei vagoni, senza avvertimenti né istruzioni ai nuovi arrivati.
Entravano in campo quelli che il caso faceva scendere da un lato del convoglio;
andavano in gas gli altri.
Così morì Emilia, che aveva tre
anni; poiché ai tedeschi appariva palese la necessità storica di mettere a
morte i bambini degli ebrei. Emilia, figlia dell’ingegner Aldo Levi di Milano,
che era una bambina curiosa, ambiziosa, allegra e intelligente; alla quale,
durante il viaggio nel vagone gremito, il padre e la madre erano riusciti a
fare il bagno in un mastello di zinco, in acqua tiepida che il degenere (6) macchinista
tedesco aveva acconsentito a spillare dalla locomotiva che ci trascinava tutti
alla morte.
Scomparvero così, in un istante,
a tradimento, le nostre donne, i nostri genitori, i nostri figli. Quasi nessuno
ebbe modo di salutarli. Li vedemmo un po’ di tempo come una massa oscura
all’altra estremità della banchina, poi non vedemmo più nulla.
Emersero invece nella luce dei
fanali due drappelli di strani individui (7). Camminavano inquadrati, per tre,
con un curioso passo impacciato, il capo spenzolato in avanti e le braccia
rigide. In capo avevano un buffo berrettino, ed erano vestiti di una lunga
palandrana a righe, che anche di notte e di lontano si indovinava sudicia e
stracciata. Descrissero un ampio cerchio attorno a noi, in modo da non
avvicinarci, e, in silenzio, si diedero ad armeggiare coi nostri bagagli, e a
salire e scendere dai vagoni vuoti.
Noi ci guardavamo senza parola.
Tutto era incomprensibile e folle, ma una cosa avevamo capito. Questa era la
metamorfosi che ci attendeva. Domani anche noi saremmo diventati così.
Senza sapere come, mi trovai
caricato su di un autocarro con una trentina di altri; l’autocarro partì nella notte
a tutta velocità; era coperto e non si poteva vedere fuori, ma dalle scosse si
capiva che la strada aveva molte curve e cunette. Eravamo senza scorta?... buttarsi
giù? Troppo tardi, troppo tardi, andiamo tutti «giù». D’altronde, ci siamo presto
accorti che non siamo senza scorta: è una strana scorta. È un soldato tedesco,
irto d’armi: non lo vediamo perché è buio fitto, ma ne sentiamo il contatto
duro ogni volta che uno scossone del veicolo ci getta tutti in mucchio a destra
o a sinistra. Accende una pila tascabile, e invece di gridare «Guai a voi,
anime prave» (8) ci domanda cortesemente ad uno ad uno, in tedesco e in lingua
franca (9), se abbiamo danaro od orologi da cedergli: tanto dopo non ci servono
più. Non è un comando, non è regolamento questo: si vede bene che è una piccola
iniziativa privata del nostro Caronte. La cosa suscita in noi collera e riso e uno
strano sollievo.
(1) “Giustizia e Libertà” fu un
movimento politico antifascista, che dopo la caduta del governo di Mussolini
nel 1943 organizzò la lotta partigiana nel nord dell’Italia.
(2) Il governo fascista
repubblicano (o Repubblica Sociale Italiana) si formò nel settembre 1943 nell’Italia
occupata dai nazisti, in seguito alla caduta del governo di Mussolini nell’Italia
monarchica: guidato da Mussolini e voluto da Hitler, questo governo durò fino
all’aprile del 1945, quando i vari movimenti della Resistenza italiana e l’avanzata
dell’esercito alleato dal sud al nord della nostra penisola riuscirono a farlo
cadere.
(3) L’episodio ricorda la
celebrazione rituale del giorno di festa, che per gli ebrei è il sabato, che
vuole indicare il passaggio dalla eccezionalità della festa alla normalità dei
giorni feriali; ma qui ha un valore opposto, perché le preghiere dei Gattegno
indicano in realtà il passaggio dalla normalità alla tragicità del
trasferimento nel lager.
(4) Wieviel Stück? = Quanti
pezzi? Vergognosamente le persone sono considerate dal maresciallo tedesco
soltanto dei “pezzi”, come se fossero merce.
(5) Allora nessuno sapeva cosa
volesse dire Auschwitz (ormai divenuta il simbolo stesso dei lager nazisti),
perciò quel nome, poiché corrispondeva sicuramente a qualche posto da qualche
parte, procura un qualche sollievo ai prigionieri.
(6) Degenere nel senso di
perverso, immorale. Chiaramente è detto in senso ironico, poiché tale doveva
apparire il macchinista del treno alla maggioranza dei tedeschi, che mai
avrebbero aiutato un ebreo.
(7) Sono dei prigionieri del
lager, addetti al recupero dei bagagli dei nuovi arrivati; erano in qualche
modo considerati dei “privilegiati”.
(8) “Guai a voi, anime prave”
sono le parole che il demonio Caronte grida ai dannati che trasporta all’inferno,
traghettandole al di là dell’Acheronte, nel canto terzo della “Divina commedia”
di Dante Alighieri (vedi il post n° 28 in questo blog). Nel romanzo di Primo
Levi vi sono molti riferimenti alla Commedia dantesca, a cominciare dal fatto
che la “discesa” ad Auschwitz viene considerata come una sorta della “discesa
all’inferno” del nostro poeta nazionale.
(9) Qui per “lingua franca” si
intende un imperfetto miscuglio di tedesco ed italiano.
Un carro merci per il trasporto dei prigionieri ebrei nei campi di
concentramento, conservato ad Auschwitz
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