Il sedicesimo capitolo di “Se questo è un uomo” è dedicato
soprattutto all’impiccagione di un prigioniero che ha partecipato alla
distruzione di uno dei crematori di Birkenau. La sua morte, per il modo in cui
avviene, segna l’animo degli altri prigionieri, uomini “rotti, vinti”, “gregge
abbietto”.
L’ULTIMO
Ormai Natale è vicino. Alberto ed
io camminiamo spalla contro spalla nella lunga schiera grigia, curvi in avanti
per resistere meglio al vento. È notte e nevica; non è facile mantenersi in
piedi, ancora più difficile mantenere il passo e l’allineamento: ogni tanto
qualcuno davanti a noi incespica e rotola nel fango nero, bisogna stare attenti
a evitarlo e a riprendere il nostro posto nella fila.
Da quando io sono in Laboratorio,
Alberto ed io lavoriamo separati, e, nella marcia di ritorno, abbiamo sempre
molte cose da dirci. Di solito non si tratta di cose molto elevate: del lavoro,
dei compagni, del pane, del freddo; ma da una settimana c’è qualcosa di nuovo:
Lorenzo ci porta ogni sera tre o quattro litri della zuppa dei lavoratori
civili italiani. Per risolvere il problema del trasporto, abbiamo dovuto
procurarci ciò che qui si chiama una « menaschka», vale a dire una gamella
fuori serie di lamiera zincata, piuttosto un secchio che una gamella.
Silberlust, il lattoniere, ce l’ha fabbricata con due pezzi di grondaia, in
cambio di tre razioni di pane: è uno splendido recipiente solido e capace, dal
caratteristico aspetto di arnese neolitico.
In tutto il campo solo qualche
greco possiede una menaschka più grande della nostra. Questo, oltre ai vantaggi
materiali, ha comportato un sensibile miglioramento della nostra condizione
sociale. Una menaschka come la nostra è un diploma di nobiltà, è un segno
araldico: Henri sta diventando nostro amico e parla con noi da pari a pari; L.
ha assunto un tono paterno e condiscendente; quanto a Elias, ci è perennemente
alle costole, e mentre da una parte ci spia con tenacia per scoprire il segreto
della nostra «organisacja», dall’altra ci subissa di incomprensibili
dichiarazioni di solidarietà e di affetto, e ci introna con una litania di
portentose oscenità e bestemmie italiane e francesi che ha imparate chissà
dove, e con le quali intende palesemente onorarci.
Quanto all’aspetto morale del
nuovo stato di cose, Alberto e io abbiamo dovuto convenire che non c’è di che
andare molto fieri; ma è così facile trovarsi delle giustificazioni!
D’altronde, questo stesso fatto di avere nuove cose di cui parlare, non è un
vantaggio trascurabile.
Parliamo del disegno di
comperarci una seconda menaschka per fare la rotazione con la prima, in modo
che ci basti una sola spedizione al giorno all’angolo remoto del cantiere dove
ora lavora Lorenzo. Parliamo di Lorenzo, e del modo di compensarlo; dopo, se
ritorneremo, sì, certamente, faremo tutto quanto potremo per lui; ma a che pro
parlare di questo? Sia lui che noi, sappiamo bene che è difficile che noi
torniamo. Bisognerebbe fare qualcosa subito; potremmo provare a fargli riparare
le scarpe nella calzoleria del nostro Lager, dove le riparazioni sono gratuite
(sembra un paradosso, ma ufficialmente, nei campi di annientamento, è tutto
gratuito). Alberto proverà: è amico del ciabattino capo, forse basterà qualche
litro di zuppa.
Parliamo di tre nuovissime nostre
imprese, e ci troviamo d’accordo nel deplorare che evidenti ragioni di segreto
professionale sconsiglino di spiattellarle in giro: peccato, il nostro
prestigio personale ne trarrebbe un grande vantaggio.
Della prima, è mia la paternità.
Ho saputo che il Blockältester del 44 è a corto di scope, e ne ho rubata una in
cantiere: e fin qui non c’è nulla di straordinario. La difficoltà era quella di
contrabbandare la scopa in Lager durante la marcia di ritorno, e io l’ho
risolta in un modo che credo inedito, smembrando la refurtiva in saggina e
manico, segando quest’ultimo in due pezzi, portando in campo i vari articoli
separatamente (i due tronconi di manico legati alle cosce, dentro i pantaloni),
e ricostituendo il tutto in Lager, per il che ho dovuto trovare un pezzo di
lamiera, martello e chiodi per risaldare i due legni. Il travaso ha richiesto
quattro soli giorni.
Contrariamente a quanto temevo,
il committente non solo non ha svalutata la mia scopa, ma l’ha mostrata come
una curiosità a parecchi suoi amici, i quali mi hanno passato regolare
ordinazione per altre due scope «dello stesso modello».
Ma Alberto ha ben altro in
pentola. In primo luogo, ha messo a punto l’«operazione lima», e l’ha già
eseguita due volte con successo. Alberto si presenta al magazzino attrezzi,
chiede una lima, e ne sceglie una piuttosto grossa. Il magazziniere scrive «una
lima» accanto al suo numero di matricola, e Alberto se ne va. Va di filato da
un civile sicuro (un fior di furfante triestino, che ne sa una più del diavolo
e aiuta Alberto più per amor dell’arte che per interesse o per filantropia), il
quale non ha difficoltà a cambiare sul libero mercato la lima grossa contro due
piccole di valore uguale o minore. Alberto rende «una lima» al magazzino e
vende l’altra.
E infine, ha coronato in questi
giorni il suo capolavoro, una combinazione audace, nuova, e di singolare
eleganza. Bisogna sapere che da qualche settimana ad Alberto è stata affidata
una mansione speciale: al mattino, in cantiere, gli viene consegnato un secchio
con pinze, cacciavite, e parecchie centinaia di targhette di celluloide di
colori diversi, le quali egli deve montare mediante appositi supportini per
contraddistinguere le numerose e lunghe tubazioni di acqua fredda e calda,
vapore, aria compressa, gas, nafta, vuoto ecc. che percorrono in tutti i sensi
il Reparto Polimerizzazione. Bisogna sapere inoltre (e sembra che non c’entri
affatto: ma l’ingegno non consiste forse nel trovare o creare relazioni fra
ordini di idee apparentemente estranei?) che per tutti noi Häftlinge la doccia
è una faccenda assai sgradevole per molte ragioni (l’acqua è scarsa e fredda, o
addirittura bollente, non c’è spogliatoio, non abbiamo asciugamani, non abbiamo
sapone, e durante la forzata assenza è facile essere derubati). Poiché la
doccia è obbligatoria, occorre ai Blockälteste un sistema di controllo che
permetta di applicare sanzioni a chi vi si sottrae: per lo più, un fiduciario
del Block si installa sulla porta, e tasta come Polifemo chi esce per sentire
se è bagnato; chi lo è, riceve uno scontrino, chi è asciutto riceve cinque
nerbate. Solo presentando lo scontrino si può riscuotere il pane al mattino
seguente.
L’attenzione di Alberto si è
appuntata sugli scontrini. In genere, non sono altro che miseri biglietti di
carta, che vengono riconsegnati umidi, spiegazzati e irriconoscibili. Alberto
conosce i tedeschi, e i Blockälteste sono tutti tedeschi o di scuola tedesca:
amano l’ordine, il sistema, la burocrazia; inoltre, pur essendo dei tangheri
maneschi e iracondi, nutrono un amore infantile per gli oggetti luccicanti e
variopinti.
Così impostato il tema, eccone il
brillante svolgimento. Alberto ha sottratto sistematicamente una serie di
targhette dello stesso colore; da ognuna, ha ricavato tre dischetti (lo
strumento necessario, un foratappi, l’ho organizzato io in Laboratorio): quando
sono stati pronti duecento dischetti, sufficienti per un Block, si è presentato
al Blockältester, e gli ha offerto la «Spezialität» per la folle quotazione di
dieci razioni di pane, a consegna scalare. Il cliente ha accettato con
entusiasmo, e ora Alberto dispone di un portentoso articolo di moda da offrire
a colpo sicuro in tutte le baracche, un colore per baracca (nessun
Blockältester vorrà passare per taccagno o misoneista), e, quel che più conta,
non ha da temere concorrenti, perché lui solo ha accesso alla materia prima.
Non è ben studiato?
Di queste cose parliamo,
incespicando da una pozzanghera all’altra, fra il nero del cielo e il fango
della strada. Parliamo e camminiamo. Io porto le due gamelle vuote, Alberto il
peso della menaschka dolcemente piena. Ancora una volta la musica della banda,
la cerimonia del «Mützen ab», giù i berretti di scatto davanti alle SS; ancora
una volta Arbeit Macht Frei, e l’annunzio del Kapo: - Kommando 98, zwei und
sechzig Häftlinge, Starke stimmt, - sessantadue prigionieri, il conto torna. Ma
la colonna non si è sciolta, ci hanno fatto marciare fino in piazza
dell’Appello. Ci sarà appello? Non è l’appello. Abbiamo visto la luce cruda del
faro, e il profilo ben noto della forca.
Ancora per più di un’ora le
squadre hanno continuato a rientrare, col trepestio duro delle suole di legno
sulla neve gelata. Quando poi tutti i Kommandos sono ritornati, la banda ha
taciuto a un tratto, e una rauca voce tedesca ha imposto il silenzio.
Nell’improvvisa quiete, si è levata un’altra voce tedesca, e nell’aria buia e
nemica ha parlato a lungo con collera. Infine il condannato è stato introdotto
nel fascio di luce del faro.
Tutto questo apparato, e questo
accanito cerimoniale, non sono nuovi per noi. Da quando io sono in campo, ho
già dovuto assistere a tredici pubbliche impiccagioni; ma le altre volte si
trattava di comuni reati, furti alla cucina, sabotaggi, tentativi di fuga. Oggi
si tratta di altro.
Il mese scorso, uno dei crematori
di Birkenau è stato fatto saltare. Nessuno di noi sa (e forse nessuno saprà
mai) come esattamente l’impresa sia stata compiuta: si parla del
Sonderkommando, del Kommando Speciale addetto alle camere a gas e ai forni, che
viene esso stesso periodicamente sterminato, e che viene tenuto scrupolosamente
segregato dal resto del campo. Resta il fatto che a Birkenau qualche centinaio
di uomini, di schiavi inermi e spossati come noi, hanno trovato in se stessi la
forza di agire, di maturare i frutti del loro odio.
L’uomo che morrà oggi davanti a
noi ha preso parte in qualche modo alla rivolta. Si dice che avesse relazioni
cogli insorti di Birkenau, che abbia portato armi nel nostro campo, che stesse
tramando un ammutinamento simultaneo anche tra noi. Morrà oggi sotto i nostri
occhi: e forse i tedeschi non comprenderanno che la morte solitaria, la morte
di uomo che gli è stata riservata, gli frutterà gloria e non infamia.
Quando finì il discorso del
tedesco, che nessuno poté intendere, di nuovo si levò la prima voce rauca: -
Habt ihr verstanden? - (Avete capito?)
Chi rispose «Jawohl»? Tutti e
nessuno: fu come se la nostra maledetta rassegnazione prendesse corpo di per
sé, si facesse voce collettivamente al di sopra dei nostri capi. Ma tutti
udirono il grido del morente, esso penetrò le grosse antiche barriere di
inerzia e di remissione, percosse il centro vivo dell’uomo in ciascuno di noi:
- Kameraden, ich bin der Letzte!
- (Compagni, io sono l’ultimo!)
Vorrei poter raccontare che di
fra noi, gregge abietto, una voce si fosse levata, un mormorio, un segno di
assenso. Ma nulla è avvenuto. Siamo rimasti in piedi, curvi e grigi, a capo
chino, e non ci siamo scoperta la testa che quando il tedesco ce l’ha ordinato.
La botola si è aperta, il corpo ha guizzato atroce; la banda ha ripreso a
suonare, e noi, nuovamente ordinati in colonna, abbiamo sfilato davanti agli
ultimi fremiti del morente.
Ai piedi della forca, le SS ci
guardano passare con occhi indifferenti: la loro opera è compiuta, e ben
compiuta. I russi possono ormai venire: non vi sono più uomini forti fra noi,
l’ultimo pende ora sopra i nostri capi, e per gli altri, pochi capestri sono
bastati. Possono venire i russi: non troveranno che noi domati, noi spenti,
degni ormai della morte inerme che ci attende.
Distruggere l’uomo è difficile,
quasi quanto crearlo: non è stato agevole, non è stato breve, ma ci siete
riusciti, tedeschi. Eccoci docili sotto i vostri sguardi: da parte nostra nulla
più avete a temere: non atti di rivolta, non parole di sfida, neppure uno
sguardo giudice.
Alberto ed io siamo rientrati in
baracca, e non abbiamo potuto guardarci in viso. Quell’uomo doveva essere duro,
doveva essere di un altro metallo del nostro, se questa condizione, da cui noi
siamo stati rotti, non ha potuto piegarlo.
Perché, anche noi siamo rotti,
vinti: anche se abbiamo saputo adattarci, anche se abbiamo finalmente imparato
a trovare il nostro cibo e a reggere alla fatica e al freddo, anche se
ritorneremo.
Abbiamo issato la menaschka sulla
cuccetta, abbiamo fatto la ripartizione, abbiamo soddisfatto la rabbia
quotidiana della fame, e ora ci opprime la vergogna.
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