lunedì 16 gennaio 2017

46 Se questo è un uomo - capitolo 13: OTTOBRE 1944 (di Primo Levi)



Arriva nuovamente l’inverno gelido della Polonia: su dieci, sette moriranno. Come se non bastasse, arriva la selezione: una breve corsa davanti a una SS, che decide della vita o della morte di migliaia di uomini con una semplice occhiata. E qualcuno, che non è stato scelto per la camera a gas, prega Dio di averlo risparmiato, mentre accanto a lui un ragazzo di vent’anni, destinato alla morte, non pensa più niente.
Il capitolo si chiude con una precisa, terribile invettiva di Primo Levi.

OTTOBRE 1944

Con tutte le nostre forze abbiamo lottato perché l’inverno non venisse. Ci siamo aggrappati a tutte le ore tiepide, a ogni tramonto abbiamo cercato di trattenere il sole in cielo ancora un poco, ma tutto è stato inutile. Ieri sera il sole si è coricato irrevocabilmente in un intrico di nebbia sporca, di ciminiere e di fili, e stamattina è inverno.
Noi sappiamo che cosa vuol dire, perché eravamo qui l’inverno scorso, e gli altri lo impareranno presto. Vuol dire che, nel corso di questi mesi, dall’ottobre all’aprile, su dieci di noi, sette morranno. Chi non morrà, soffrirà minuto per minuto, per ogni giorno, per tutti i giorni: dal mattino avanti l’alba fino alla distribuzione della zuppa serale dovrà tenere costantemente i muscoli tesi, danzare da un piede all’altro, sbattersi le braccia sotto le ascelle per resistere al freddo. Dovrà spendere pane per procurarsi guanti, e perdere ore di sonno per ripararli quando saranno scuciti. Poiché non si potrà più mangiare all’aperto, dovremo consumare i nostri pasti nella baracca, in piedi, disponendo ciascuno di un palmo di pavimento, e appoggiarsi sulle cuccette è proibito. A tutti si apriranno ferite sulle mani, e per ottenere un bendaggio bisognerà attendere ogni sera per ore in piedi nella neve e nel vento.
Come questa nostra fame non è la sensazione di chi ha saltato un pasto, così il nostro modo di aver freddo esigerebbe un nome particolare. Noi diciamo «fame», diciamo «stanchezza», «paura», e «dolore», diciamo «inverno», e sono altre cose. Sono parole libere, create e usate da uomini liberi che vivevano, godendo e soffrendo, nelle loro case. Se i Lager fossero durati più a lungo, un nuovo aspro linguaggio sarebbe nato; e di questo si sente il bisogno per spiegare cosa è faticare l’intera giornata nel vento, sotto zero, con solo indosso camicia, mutande, giacca e brache di tela, e in corpo debolezza e fame e consapevolezza della fine che viene.

In quel modo con cui si vede finire una speranza, così stamattina è stato inverno. Ce ne siamo accorti quando siamo usciti dalla baracca per andarci a lavare: non c’erano stelle, l’aria buia e fredda aveva odore di neve. In piazza dell’Appello, nella prima luce, alla adunata per il lavoro, nessuno ha parlato. Quando abbiamo visto i primi fiocchi di neve, abbiamo pensato che, se l’anno scorso a quest’epoca ci avessero detto che avremmo visto ancora un inverno in Lager, saremmo andati a toccare il reticolato elettrico; e che anche adesso ci andremmo, se fossimo logici, se non fosse di questo insensato pazzo residuo di speranza inconfessabile.
Perché «inverno» vuol dire altro ancora.
La primavera scorsa, i tedeschi hanno costruito due enormi tende in uno spiazzo del nostro Lager. Ciascuna per tutta la buona stagione ha ospitato più di mille uomini; ora le tende sono state smontate, e duemila ospiti in soprannumero affollano le nostre baracche. Noi vecchi prigionieri sappiamo che queste irregolarità non piacciono ai tedeschi, e che presto qualcosa succederà perché il nostro numero venga ridotto.
Le selezioni si sentono arrivare. «Selekcja»: la ibrida parola latina e polacca si sente una volta, due volte, molte volte, intercalata in discorsi stranieri; dapprima non la si individua, poi si impone all’attenzione, infine ci perseguita.
Stamattina i polacchi dicono «Selekcja». I polacchi sono i primi a sapere le notizie, e cercano in genere di non lasciarle diffondere, perché sapere qualcosa mentre gli altri non la sanno ancora può sempre essere vantaggioso. Quando tutti sapranno che la selezione è imminente, il pochissimo che qualcuno potrebbe tentare per defilarsi (corrompere con pane o con tabacco qualche medico o qualche prominente; passare dalla baracca in Ka-Be o viceversa, al momento esatto, in modo da incrociare la commissione) sarà già monopolio loro.
Nei giorni che seguono, l’atmosfera del Lager e del cantiere è satura di «Selekcja»: nessuno sa nulla di preciso e tutti ne parlano, perfino gli operai liberi, polacchi, italiani, francesi, che di nascosto vediamo sul lavoro. Non si può dire che ne risulti un’ondata di abbattimento. Il nostro morale collettivo è troppo inarticolato e piatto per essere instabile. La lotta contro la fame, il freddo e il lavoro lascia poco margine per il pensiero, anche se si tratta di questo pensiero. Ciascuno reagisce a suo modo, ma quasi nessuno con quegli atteggiamenti che sembrerebbero più plausibili perché sono realistici, e cioè con la rassegnazione o con la disperazione.
Chi può provvedere provvede; ma sono i meno, perché sottrarsi alla selezione è molto difficile, i tedeschi fanno queste cose con grande serietà e diligenza.
Chi non può provvedere materialmente cerca difesa altrimenti. Ai gabinetti, al lavatoio, noi ci mostriamo l’un l’altro il torace, le natiche, le cosce, e i compagni ci rassicurano: - Puoi essere tranquillo, non sarà certo la tua volta,... du bist kein Muselmann... (1) io piuttosto invece... - e a loro volta si calano le brache e sollevano la camicia.
Nessuno nega altrui questa elemosina: nessuno è così sicuro della propria sorte da avere animo di condannare altri. Anch’io ho sfacciatamente mentito al vecchio Wertheimer; gli ho detto che, se lo interrogheranno, risponda di avere quarantacinque anni, e che non trascuri di farsi radere la sera prima, anche a costo di rimetterci un quarto di pane; che, a parte ciò, non deve nutrire timori, e che d’altronde non è per nulla certo che si tratti di una selezione per il gas: non ha sentito dal Blockältester (2) che i prescelti andranno a Jaworszno al campo di convalescenza?
È assurdo che Wertheimer speri: dimostra sessant’anni, ha enormi varici, non sente quasi neppur più la fame. Eppure se ne va in cuccetta sereno e tranquillo, e, a chi gli fa domande, risponde con le mie parole; sono la parola d’ordine del campo in questi giorni: io stesso le ho ripetute come, a meno di particolari, me le sono sentite recitare da Chajim, che è in Lager da tre anni, e siccome è forte e robusto, è mirabilmente sicuro di sé; e io l’ho creduto.
Su questa esigua base anch’io ho attraversato la grande selezione dell’ottobre 1944 con inconcepibile tranquillità. Ero tranquillo perché ero riuscito a mentirmi quanto era bastato. Il fatto che io non sia stato scelto è dipeso soprattutto dal caso e non dimostra che la mia fiducia fosse ben fondata.
Anche Monsieur Pinkert è, a priori, un condannato: basta vedere i suoi occhi. Mi chiama con un cenno, e con aria confidenziale mi racconta che ha saputo, da qual fonte non mi può dire, che effettivamente questa volta c’è del nuovo: la Santa Sede, per mezzo della Croce Rossa Internazionale... ...infine, garantisce lui personalmente che, sia per sé che per me, nel modo più assoluto, è escluso ogni pericolo: da civile lui era, come è noto, addetto all’ambasciata belga di Varsavia.
In vari modi dunque, anche questi giorni di vigilia, che raccontati sembra dovessero essere tormentosi al di là di ogni limite umano, passano non molto diversamente dagli altri giorni.
La disciplina del Lager e della Buna non sono in alcun modo allentate, il lavoro, il freddo e la fame sono sufficienti a impegnare senza residui le nostre attenzioni.
Oggi è domenica lavorativa, Arbeitssonntag: si lavora fino alle tredici, poi si ritorna in campo per la doccia, la rasatura e il controllo generale della scabbia e dei pidocchi, e in cantiere, misteriosamente, tutti abbiamo saputo che la selezione sarà oggi.
La notizia è giunta, come sempre, circondata da un alone di particolari contraddittori e sospetti: stamattina stessa c’è stata selezione in infermeria; la percentuale è stata del sette per cento del totale, del trenta, del cinquanta per cento dei malati. A Birkenau il camino del Crematorio fuma da dieci giorni. Deve essere fatto posto per un enorme trasporto in arrivo dal ghetto di Posen. I giovani dicono ai giovani che saranno scelti tutti i vecchi. I sani dicono ai sani che saranno scelti solo i malati. Saranno esclusi gli specialisti. Saranno esclusi gli ebrei tedeschi. Saranno esclusi i Piccoli Numeri. Sarai scelto tu. Sarò escluso io.
Regolarmente, a partire dalle tredici in punto, il cantiere si svuota e la schiera grigia interminabile sfila per due ore davanti alle due stazioni di controllo, dove come ogni giorno veniamo contati e ricontati, e davanti all’orchestra che, per due ore senza interruzione, suona come ogni giorno le marce sulle quali dobbiamo, all’entrata e all’uscita, sincronizzare i nostri passi.
Sembra che tutto vada come ogni giorno, il camino delle cucine fuma come di consueto, già si comincia la distribuzione della zuppa. Ma poi si è udita la campana, e allora si è capito che ci siamo.
Perché questa campana suona sempre all’alba, e allora è la sveglia, ma quando suona a metà giornata vuol dire «Blocksperre», clausura in baracca, e questo avviene quando c’è selezione, perché nessuno vi si sottragga, e quando i selezionati partono per il gas, perché nessuno li veda partire.

Il nostro Blockältester conosce il suo mestiere. Si è accertato che tutti siano rientrati, ha fatto chiudere la porta a chiave, ha distribuito a ciascuno la scheda che porta la matricola, il nome, la professione, l’età e la nazionalità, e ha dato ordine che ognuno si spogli completamente, conservando solo le scarpe. In questo modo, nudi e con la scheda in mano, attenderemo che la commissione arrivi alla nostra baracca. Noi siamo la baracca 48, ma non si può prevedere se si comincerà dalla baracca 1 o dalla 60. In ogni modo, per almeno un’ora possiamo stare tranquilli, e non c’è ragione che non ci mettiamo sotto le coperte delle cuccette per riscaldarci.

Già molti sonnecchiano, quando uno scatenarsi di comandi, di bestemmie e di colpi indica che la commissione è in arrivo. Il Blockältester e i suoi aiutanti, a pugni e a urli, a partire dal fondo del dormitorio, si cacciano davanti la turba dei nudi spaventati, e li stipano dentro il Tagesraum, che è la Direzione-Fureria. Il Tagesraum è una cameretta di sette metri per quattro: quando la caccia è finita, dentro il Tagesraum è compressa una compagine umana calda e compatta, che invade e riempie perfettamente tutti gli angoli ed esercita sulle pareti di legno una pressione tale da farle scricchiolare.
Ora siamo tutti nel Tagesraum, e, oltre che non esserci tempo, non c’è neppure posto per avere paura. La sensazione della carne calda che preme tutto intorno è singolare e non spiacevole. Bisogna aver cura di tener alto il naso per trovare aria, e di non spiegazzare o perdere la scheda che teniamo in mano.
Il Blockältester ha chiuso la porta Tagesraum-dormitorio e ha aperto le altre due che dal Tagesraum e dal dormitorio dànno all’esterno. Qui, davanti alle due porte, sta l’arbitro del nostro destino, che è un sottufficiale delle SS. Ha a destra il Blockältester, a sinistra il furiere della baracca. Ognuno di noi, che esce nudo dal Tagesraum nel freddo dell’aria di ottobre, deve fare di corsa i pochi passi fra le due porte davanti ai tre, consegnare la scheda alla SS e rientrare per la porta del dormitorio. La SS, nella frazione di secondo fra due passaggi successivi, con uno sguardo di faccia e di schiena giudica della sorte di ognuno, e consegna a sua volta la scheda all’uomo alla sua destra o all’uomo alla sua sinistra, e questo è la vita o la morte di ciascuno di noi. In tre o quattro minuti una baracca di duecento uomini è «fatta», e nel pomeriggio l’intero campo di dodicimila uomini.
Io confitto nel carnaio del Tagesraum ho sentito gradualmente allentarsi la pressione umana intorno a me, e in breve è stata la mia volta. Come tutti, sono passato con passo energico ed elastico, cercando di tenere la testa alta, il petto in fuori e i muscoli contratti e rilevati. Con la coda dell’occhio ho cercato di vedere alle mie spalle, e mi è parso che la mia scheda sia finita a destra.
A mano a mano che rientriamo nel dormitorio, possiamo rivestirci. Nessuno conosce ancora con sicurezza il proprio destino, bisogna anzitutto stabilire se le schede condannate sono quelle passate a destra o a sinistra. Ormai non è più il caso di risparmiarsi l’un l’altro e di avere scrupoli superstiziosi. Tutti si accalcano intorno ai più vecchi, ai più denutriti, ai più «mussulmani»; se le loro schede sono andate a sinistra, la sinistra è certamente il lato dei condannati.
Prima ancora che la selezione sia terminata, tutti già sanno che la sinistra è stata effettivamente la «schlechte Seite», il lato infausto. Ci sono naturalmente delle irregolarità: René per esempio, così giovane e robusto, è finito a sinistra: forse perché ha gli occhiali, forse perché cammina un po’ curvo come i miopi, ma più probabilmente per una semplice svista: René è passato davanti alla commissione immediatamente prima di me, e potrebbe essere avvenuto uno scambio di schede. Ci ripenso, ne parlo con Alberto, e conveniamo che l’ipotesi è verosimile: non so cosa ne penserò domani e poi; oggi essa non desta in me alcuna emozione precisa.
Parimenti di un errore deve essersi trattato per Sattler, un massiccio contadino transilvano che venti giorni fa era ancora a casa sua; Sattler non capisce il tedesco, non ha compreso nulla di quel che è successo e sta in un angolo a rattopparsi la camicia. Devo andargli a dire che non gli servirà più la camicia?
Non c’è da stupirsi di queste sviste: l’esame è molto rapido e sommario, e d’altronde, per l’amministrazione del Lager, l’importante non è tanto che vengano eliminati proprio i più inutili, quanto che si rendano speditamente liberi posti in una certa percentuale prestabilita.

Nella nostra baracca la selezione è ormai finita, però continua nelle altre, per cui siamo ancora sotto clausura. Ma poiché frattanto i bidoni della zuppa sono arrivati, il Blockältester decide di procedere senz’altro alla distribuzione. Ai selezionati verrà distribuita doppia razione. Non ho mai saputo se questa fosse un’iniziativa assurdamente pietosa dei Blockälteste od un’esplicita disposizione delle SS, ma di fatto, nell’intervallo di due o tre giorni (talora anche molto più lungo) fra la selezione e la partenza, le vittime a Monowitz-Auschwitz godevano di questo privilegio.
Ziegier presenta la gamella, riscuote la normale razione, poi resta lì in attesa. - Che vuoi ancora? - chiede il Blockältester: non gli risulta che a Ziegler spetti il supplemento, lo caccia via con una spinta, ma Ziegler ritorna e insiste umilmente: è stato proprio messo a sinistra, tutti l’hanno visto, vada il Blockältester a consultare le schede: ha diritto alla doppia razione. Quando l’ha ottenuta, se ne va quieto in cuccetta a mangiare.

Adesso ciascuno sta grattando attentamente col cucchiaio il fondo della gamella per ricavarne le ultime briciole di zuppa, e ne nasce un tramestio metallico sonoro il quale vuol dire che la giornata è finita. A poco a poco prevale il silenzio, e allora, dalla mia cuccetta che è al terzo piano, si vede e si sente che il vecchio Kuhn prega, ad alta voce, col berretto in testa e dondolando il busto con violenza. Kuhn ringrazia Dio perché non è stato scelto.
Kuhn è un insensato. Non vede, nella cuccetta accanto, Beppo il greco che ha vent’anni, e dopodomani andrà in gas, e lo sa, e se ne sta sdraiato e guarda fisso la lampadina senza dire niente e senza pensare più niente? Non sa Kuhn che la prossima volta sarà la sua volta? Non capisce Kuhn che è accaduto oggi un abominio che nessuna preghiera propiziatoria, nessun perdono, nessuna espiazione dei colpevoli, nulla insomma che sia in potere dell’uomo di fare, potrà risanare mai più?
Se io fossi Dio, sputerei a terra la preghiera di Kuhn.

(1) Du bist kein Muselmann = tu non sei mussulmano, cioè non sei patito e debole.
(2) Blockältester = capo baracca.


Prigionieri a Buchenwald nell’aprile 1945



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