Arriva nuovamente l’inverno gelido della Polonia: su dieci,
sette moriranno. Come se non bastasse, arriva la selezione: una breve corsa
davanti a una SS, che decide della vita o della morte di migliaia di uomini con
una semplice occhiata. E qualcuno, che non è stato scelto per la camera a gas,
prega Dio di averlo risparmiato, mentre accanto a lui un ragazzo di vent’anni,
destinato alla morte, non pensa più niente.
Il capitolo si chiude con una precisa, terribile invettiva
di Primo Levi.
OTTOBRE 1944
Con tutte le nostre forze abbiamo
lottato perché l’inverno non venisse. Ci siamo aggrappati a tutte le ore
tiepide, a ogni tramonto abbiamo cercato di trattenere il sole in cielo ancora
un poco, ma tutto è stato inutile. Ieri sera il sole si è coricato
irrevocabilmente in un intrico di nebbia sporca, di ciminiere e di fili, e
stamattina è inverno.
Noi sappiamo che cosa vuol dire,
perché eravamo qui l’inverno scorso, e gli altri lo impareranno presto. Vuol
dire che, nel corso di questi mesi, dall’ottobre all’aprile, su dieci di noi,
sette morranno. Chi non morrà, soffrirà minuto per minuto, per ogni giorno, per
tutti i giorni: dal mattino avanti l’alba fino alla distribuzione della zuppa
serale dovrà tenere costantemente i muscoli tesi, danzare da un piede all’altro,
sbattersi le braccia sotto le ascelle per resistere al freddo. Dovrà spendere
pane per procurarsi guanti, e perdere ore di sonno per ripararli quando saranno
scuciti. Poiché non si potrà più mangiare all’aperto, dovremo consumare i
nostri pasti nella baracca, in piedi, disponendo ciascuno di un palmo di
pavimento, e appoggiarsi sulle cuccette è proibito. A tutti si apriranno ferite
sulle mani, e per ottenere un bendaggio bisognerà attendere ogni sera per ore in
piedi nella neve e nel vento.
Come questa nostra fame non è la
sensazione di chi ha saltato un pasto, così il nostro modo di aver freddo
esigerebbe un nome particolare. Noi diciamo «fame», diciamo «stanchezza»,
«paura», e «dolore», diciamo «inverno», e sono altre cose. Sono parole libere,
create e usate da uomini liberi che vivevano, godendo e soffrendo, nelle loro
case. Se i Lager fossero durati più a lungo, un nuovo aspro linguaggio sarebbe
nato; e di questo si sente il bisogno per spiegare cosa è faticare l’intera
giornata nel vento, sotto zero, con solo indosso camicia, mutande, giacca e
brache di tela, e in corpo debolezza e fame e consapevolezza della fine che
viene.
In quel modo con cui si vede
finire una speranza, così stamattina è stato inverno. Ce ne siamo accorti
quando siamo usciti dalla baracca per andarci a lavare: non c’erano stelle,
l’aria buia e fredda aveva odore di neve. In piazza dell’Appello, nella prima luce,
alla adunata per il lavoro, nessuno ha parlato. Quando abbiamo visto i primi
fiocchi di neve, abbiamo pensato che, se l’anno scorso a quest’epoca ci
avessero detto che avremmo visto ancora un inverno in Lager, saremmo andati a
toccare il reticolato elettrico; e che anche adesso ci andremmo, se fossimo
logici, se non fosse di questo insensato pazzo residuo di speranza
inconfessabile.
Perché «inverno» vuol dire altro
ancora.
La primavera scorsa, i tedeschi
hanno costruito due enormi tende in uno spiazzo del nostro Lager. Ciascuna per
tutta la buona stagione ha ospitato più di mille uomini; ora le tende sono
state smontate, e duemila ospiti in soprannumero affollano le nostre baracche.
Noi vecchi prigionieri sappiamo che queste irregolarità non piacciono ai
tedeschi, e che presto qualcosa succederà perché il nostro numero venga
ridotto.
Le selezioni si sentono arrivare.
«Selekcja»: la ibrida parola latina e polacca si sente una volta, due volte,
molte volte, intercalata in discorsi stranieri; dapprima non la si individua,
poi si impone all’attenzione, infine ci perseguita.
Stamattina i polacchi dicono
«Selekcja». I polacchi sono i primi a sapere le notizie, e cercano in genere di
non lasciarle diffondere, perché sapere qualcosa mentre gli altri non la sanno
ancora può sempre essere vantaggioso. Quando tutti sapranno che la selezione è
imminente, il pochissimo che qualcuno potrebbe tentare per defilarsi
(corrompere con pane o con tabacco qualche medico o qualche prominente; passare
dalla baracca in Ka-Be o viceversa, al momento esatto, in modo da incrociare la
commissione) sarà già monopolio loro.
Nei giorni che seguono,
l’atmosfera del Lager e del cantiere è satura di «Selekcja»: nessuno sa nulla
di preciso e tutti ne parlano, perfino gli operai liberi, polacchi, italiani,
francesi, che di nascosto vediamo sul lavoro. Non si può dire che ne risulti
un’ondata di abbattimento. Il nostro morale collettivo è troppo inarticolato e
piatto per essere instabile. La lotta contro la fame, il freddo e il lavoro
lascia poco margine per il pensiero, anche se si tratta di questo pensiero.
Ciascuno reagisce a suo modo, ma quasi nessuno con quegli atteggiamenti che
sembrerebbero più plausibili perché sono realistici, e cioè con la rassegnazione
o con la disperazione.
Chi può provvedere provvede; ma
sono i meno, perché sottrarsi alla selezione è molto difficile, i tedeschi
fanno queste cose con grande serietà e diligenza.
Chi non può provvedere
materialmente cerca difesa altrimenti. Ai gabinetti, al lavatoio, noi ci
mostriamo l’un l’altro il torace, le natiche, le cosce, e i compagni ci
rassicurano: - Puoi essere tranquillo, non sarà certo la tua volta,... du bist
kein Muselmann... (1) io piuttosto invece... - e a loro volta si calano le
brache e sollevano la camicia.
Nessuno nega altrui questa
elemosina: nessuno è così sicuro della propria sorte da avere animo di
condannare altri. Anch’io ho sfacciatamente mentito al vecchio Wertheimer; gli
ho detto che, se lo interrogheranno, risponda di avere quarantacinque anni, e
che non trascuri di farsi radere la sera prima, anche a costo di rimetterci un
quarto di pane; che, a parte ciò, non deve nutrire timori, e che d’altronde non
è per nulla certo che si tratti di una selezione per il gas: non ha sentito dal
Blockältester (2) che i prescelti andranno a Jaworszno al campo di
convalescenza?
È assurdo che Wertheimer speri: dimostra
sessant’anni, ha enormi varici, non sente quasi neppur più la fame. Eppure se
ne va in cuccetta sereno e tranquillo, e, a chi gli fa domande, risponde con le
mie parole; sono la parola d’ordine del campo in questi giorni: io stesso le ho
ripetute come, a meno di particolari, me le sono sentite recitare da Chajim,
che è in Lager da tre anni, e siccome è forte e robusto, è mirabilmente sicuro
di sé; e io l’ho creduto.
Su questa esigua base anch’io ho
attraversato la grande selezione dell’ottobre 1944 con inconcepibile
tranquillità. Ero tranquillo perché ero riuscito a mentirmi quanto era bastato.
Il fatto che io non sia stato scelto è dipeso soprattutto dal caso e non
dimostra che la mia fiducia fosse ben fondata.
Anche Monsieur Pinkert è, a
priori, un condannato: basta vedere i suoi occhi. Mi chiama con un cenno, e con
aria confidenziale mi racconta che ha saputo, da qual fonte non mi può dire,
che effettivamente questa volta c’è del nuovo: la Santa Sede, per mezzo della
Croce Rossa Internazionale... ...infine, garantisce lui personalmente che, sia
per sé che per me, nel modo più assoluto, è escluso ogni pericolo: da civile
lui era, come è noto, addetto all’ambasciata belga di Varsavia.
In vari modi dunque, anche questi
giorni di vigilia, che raccontati sembra dovessero essere tormentosi al di là
di ogni limite umano, passano non molto diversamente dagli altri giorni.
La disciplina del Lager e della
Buna non sono in alcun modo allentate, il lavoro, il freddo e la fame sono sufficienti
a impegnare senza residui le nostre attenzioni.
Oggi è domenica lavorativa,
Arbeitssonntag: si lavora fino alle tredici, poi si ritorna in campo per la
doccia, la rasatura e il controllo generale della scabbia e dei pidocchi, e in
cantiere, misteriosamente, tutti abbiamo saputo che la selezione sarà oggi.
La notizia è giunta, come sempre,
circondata da un alone di particolari contraddittori e sospetti: stamattina
stessa c’è stata selezione in infermeria; la percentuale è stata del sette per
cento del totale, del trenta, del cinquanta per cento dei malati. A Birkenau il
camino del Crematorio fuma da dieci giorni. Deve essere fatto posto per un
enorme trasporto in arrivo dal ghetto di Posen. I giovani dicono ai giovani che
saranno scelti tutti i vecchi. I sani dicono ai sani che saranno scelti solo i
malati. Saranno esclusi gli specialisti. Saranno esclusi gli ebrei tedeschi.
Saranno esclusi i Piccoli Numeri. Sarai scelto tu. Sarò escluso io.
Regolarmente, a partire dalle tredici
in punto, il cantiere si svuota e la schiera grigia interminabile sfila per due
ore davanti alle due stazioni di controllo, dove come ogni giorno veniamo
contati e ricontati, e davanti all’orchestra che, per due ore senza
interruzione, suona come ogni giorno le marce sulle quali dobbiamo, all’entrata
e all’uscita, sincronizzare i nostri passi.
Sembra che tutto vada come ogni
giorno, il camino delle cucine fuma come di consueto, già si comincia la
distribuzione della zuppa. Ma poi si è udita la campana, e allora si è capito
che ci siamo.
Perché questa campana suona
sempre all’alba, e allora è la sveglia, ma quando suona a metà giornata vuol
dire «Blocksperre», clausura in baracca, e questo avviene quando c’è selezione,
perché nessuno vi si sottragga, e quando i selezionati partono per il gas,
perché nessuno li veda partire.
Il nostro Blockältester conosce
il suo mestiere. Si è accertato che tutti siano rientrati, ha fatto chiudere la
porta a chiave, ha distribuito a ciascuno la scheda che porta la matricola, il
nome, la professione, l’età e la nazionalità, e ha dato ordine che ognuno si
spogli completamente, conservando solo le scarpe. In questo modo, nudi e con la
scheda in mano, attenderemo che la commissione arrivi alla nostra baracca. Noi
siamo la baracca 48, ma non si può prevedere se si comincerà dalla baracca 1 o
dalla 60. In ogni modo, per almeno un’ora possiamo stare tranquilli, e non c’è
ragione che non ci mettiamo sotto le coperte delle cuccette per riscaldarci.
Già molti sonnecchiano, quando uno
scatenarsi di comandi, di bestemmie e di colpi indica che la commissione è in
arrivo. Il Blockältester e i suoi aiutanti, a pugni e a urli, a partire dal
fondo del dormitorio, si cacciano davanti la turba dei nudi spaventati, e li
stipano dentro il Tagesraum, che è la Direzione-Fureria. Il Tagesraum è una
cameretta di sette metri per quattro: quando la caccia è finita, dentro il
Tagesraum è compressa una compagine umana calda e compatta, che invade e
riempie perfettamente tutti gli angoli ed esercita sulle pareti di legno una
pressione tale da farle scricchiolare.
Ora siamo tutti nel Tagesraum, e,
oltre che non esserci tempo, non c’è neppure posto per avere paura. La
sensazione della carne calda che preme tutto intorno è singolare e non
spiacevole. Bisogna aver cura di tener alto il naso per trovare aria, e di non
spiegazzare o perdere la scheda che teniamo in mano.
Il Blockältester ha chiuso la
porta Tagesraum-dormitorio e ha aperto le altre due che dal Tagesraum e dal
dormitorio dànno all’esterno. Qui, davanti alle due porte, sta l’arbitro del
nostro destino, che è un sottufficiale delle SS. Ha a destra il Blockältester,
a sinistra il furiere della baracca. Ognuno di noi, che esce nudo dal Tagesraum
nel freddo dell’aria di ottobre, deve fare di corsa i pochi passi fra le due
porte davanti ai tre, consegnare la scheda alla SS e rientrare per la porta del
dormitorio. La SS, nella frazione di secondo fra due passaggi successivi, con
uno sguardo di faccia e di schiena giudica della sorte di ognuno, e consegna a
sua volta la scheda all’uomo alla sua destra o all’uomo alla sua sinistra, e
questo è la vita o la morte di ciascuno di noi. In tre o quattro minuti una
baracca di duecento uomini è «fatta», e nel pomeriggio l’intero campo di
dodicimila uomini.
Io confitto nel carnaio del
Tagesraum ho sentito gradualmente allentarsi la pressione umana intorno a me, e
in breve è stata la mia volta. Come tutti, sono passato con passo energico ed
elastico, cercando di tenere la testa alta, il petto in fuori e i muscoli
contratti e rilevati. Con la coda dell’occhio ho cercato di vedere alle mie
spalle, e mi è parso che la mia scheda sia finita a destra.
A mano a mano che rientriamo nel
dormitorio, possiamo rivestirci. Nessuno conosce ancora con sicurezza il
proprio destino, bisogna anzitutto stabilire se le schede condannate sono
quelle passate a destra o a sinistra. Ormai non è più il caso di risparmiarsi
l’un l’altro e di avere scrupoli superstiziosi. Tutti si accalcano intorno ai
più vecchi, ai più denutriti, ai più «mussulmani»; se le loro schede sono
andate a sinistra, la sinistra è certamente il lato dei condannati.
Prima ancora che la selezione sia
terminata, tutti già sanno che la sinistra è stata effettivamente la «schlechte
Seite», il lato infausto. Ci sono naturalmente delle irregolarità: René per
esempio, così giovane e robusto, è finito a sinistra: forse perché ha gli
occhiali, forse perché cammina un po’ curvo come i miopi, ma più probabilmente
per una semplice svista: René è passato davanti alla commissione immediatamente
prima di me, e potrebbe essere avvenuto uno scambio di schede. Ci ripenso, ne
parlo con Alberto, e conveniamo che l’ipotesi è verosimile: non so cosa ne
penserò domani e poi; oggi essa non desta in me alcuna emozione precisa.
Parimenti di un errore deve
essersi trattato per Sattler, un massiccio contadino transilvano che venti
giorni fa era ancora a casa sua; Sattler non capisce il tedesco, non ha
compreso nulla di quel che è successo e sta in un angolo a rattopparsi la
camicia. Devo andargli a dire che non gli servirà più la camicia?
Non c’è da stupirsi di queste
sviste: l’esame è molto rapido e sommario, e d’altronde, per l’amministrazione
del Lager, l’importante non è tanto che vengano eliminati proprio i più
inutili, quanto che si rendano speditamente liberi posti in una certa
percentuale prestabilita.
Nella nostra baracca la selezione
è ormai finita, però continua nelle altre, per cui siamo ancora sotto clausura.
Ma poiché frattanto i bidoni della zuppa sono arrivati, il Blockältester decide
di procedere senz’altro alla distribuzione. Ai selezionati verrà distribuita
doppia razione. Non ho mai saputo se questa fosse un’iniziativa assurdamente
pietosa dei Blockälteste od un’esplicita disposizione delle SS, ma di fatto,
nell’intervallo di due o tre giorni (talora anche molto più lungo) fra la
selezione e la partenza, le vittime a Monowitz-Auschwitz godevano di questo
privilegio.
Ziegier presenta la gamella,
riscuote la normale razione, poi resta lì in attesa. - Che vuoi ancora? -
chiede il Blockältester: non gli risulta che a Ziegler spetti il supplemento,
lo caccia via con una spinta, ma Ziegler ritorna e insiste umilmente: è stato
proprio messo a sinistra, tutti l’hanno visto, vada il Blockältester a
consultare le schede: ha diritto alla doppia razione. Quando l’ha ottenuta, se
ne va quieto in cuccetta a mangiare.
Adesso ciascuno sta grattando
attentamente col cucchiaio il fondo della gamella per ricavarne le ultime
briciole di zuppa, e ne nasce un tramestio metallico sonoro il quale vuol dire
che la giornata è finita. A poco a poco prevale il silenzio, e allora, dalla
mia cuccetta che è al terzo piano, si vede e si sente che il vecchio Kuhn
prega, ad alta voce, col berretto in testa e dondolando il busto con violenza.
Kuhn ringrazia Dio perché non è stato scelto.
Kuhn è un insensato. Non vede,
nella cuccetta accanto, Beppo il greco che ha vent’anni, e dopodomani andrà in
gas, e lo sa, e se ne sta sdraiato e guarda fisso la lampadina senza dire
niente e senza pensare più niente? Non sa Kuhn che la prossima volta sarà la
sua volta? Non capisce Kuhn che è accaduto oggi un abominio che nessuna
preghiera propiziatoria, nessun perdono, nessuna espiazione dei colpevoli,
nulla insomma che sia in potere dell’uomo di fare, potrà risanare mai più?
Se io fossi Dio, sputerei a terra
la preghiera di Kuhn.
(1) Du bist kein Muselmann = tu
non sei mussulmano, cioè non sei patito e debole.
(2) Blockältester = capo baracca.
Prigionieri a Buchenwald nell’aprile 1945
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